«È estremamente difficile parlare e scrivere di Chernobyl», eppure «le piante vivono anche attraverso gli eventi, senza formularli in parole». Queste brevissime battute sono uno dei passaggi che compongono il libro “Chernobyl Herbarium” – appena uscito per Mimesis Edizioni – del filosofo Michael Marder, professore all’Università dei Paesi Baschi, che aggiunge: «Dobbiamo imparare a farci guidare dalle piante».
“Chernobyl Herbarium”, il cui sottotitolo recita «la vita delle piante dopo il disastro nucleare», a 35 anni dalla più grande catastrofe nucleare della storia ripercorre l’evento, alternando frammenti poetici e fotogrammi vegetali, realizzati dell’artista visiva Anaïs Tondeur. Si tratta perciò di una sorta di erbario “radioattivo” delle piante post-Chernobyl, raccolto durante le spedizioni effettuate da Tondeur nella zona, al fianco di geologi, filosofi e antropologi, per interrogarsi ancora su cosa è stato e cosa sarà quel luogo, ma soprattutto sulla riappropriazione da parte della natura di spazi devastati dall’intervento umano.
Le immagini sono state realizzate con una tecnica di fotogrammi generati dalle impronte dirette di campioni di piante provenienti da Chernobyl, disposti su carta fotosensibile. Nell’era dell’Antropocene e del cambiamento climatico, per cui, la rappresentazione della rigenerazione di piante risorte dalle ceneri del disastro, porta a pensare e coltivare un altro modo di vivere, più in sintonia con l’ambiente. Ne abbiamo parlato con Tondeur, a partire dal libro e dal suo lavoro.
Cosa significa pensare (e parlare) la vita dopo Chernobyl?
L’esplosione della centrale nucleare di Chernobyl ha innescato uno sconvolgimento radicale nei nostri modi di pensare, parlare, creare, come nei nostri modi di essere al mondo nel suo insieme. Questo evento ha segnato la fine della fede incondizionata dell’essere umano nel progresso e ci ha spinto fuori da un modo più antico di rapportarci al mondo, che affonda le sue radici nel Rinascimento. In questo momento della storia, diverse discipline, tra cui la medicina e le scienze naturali, nella loro dissezione razionale del mondo, hanno partecipato a collocare le nostre esistenze umane fuori dal ciclo dei vivi. In questa sovrastante posizione di controllo, la “natura” si trasforma in fonte di profitto. Ora per esempio stiamo distruggendo fino alla materia stessa del mondo per estrarre gli elementi o le energie a base di carbonio da cui le nostre società hanno sviluppato una dipendenza sempre crescente.
Con l’energia nucleare, questo approccio è stato portato all’estremo. Attraverso questa modalità di relazione con il mondo, altri esseri viventi come la terra possono essere distrutti senza remore, perché dissociati dalle nostre esistenze e percepiti come esterni a noi. Eppure, eventi come l’esplosione del reattore di Chernobyl ci ricordano le interazioni che intrecciano profondamente le nostre società con la Terra. Tuttavia, tali interazioni si manifestano sotto forme perverse. Il clima è in preda a una deregolamentazione senza precedenti. I tornado devastano vasti territori. Gli tsunami partecipano all’innesco della fusione di un reattore nucleare in Giappone. Vivere in questo mondo richiede quindi di sviluppare modi diversi per reinserire la nostra esistenza nei cicli della terra.
Come possono le immagini delle piante ripristinare l’anima di Chernobyl?
Attraverso la mia pratica artistica, cerco di portare alla nostra percezione l’energia dispiegata dai vivi anche nei luoghi di distruzioni antropiche. Le immagini dell’Erbario sono quindi pensate come tracce, testimonianze fotografiche del potere vivente degli esseri vegetali. A Chernobyl le piante non possono più essere viste come semplice verde, ma sono la manifestazione stessa del vivente. La loro opulenza nella zona di esclusione rivela un’incredibile forza di resilienza e una rapida capacità di adattamento al loro ambiente modificato. Le loro proteine sono mutate come mezzo di protezione contro l’alto livello di radioattività.
Come si può cercare oggi un altro modo di vivere in armonia con l’ambiente?
Prendendo le piante come guide per esplorare, inventare e incarnare altre modalità di convivenza nel mondo. Abbiamo molto da imparare dalla loro presenza. In quanto esseri di superficie, sono in costante esposizione al mondo. Sebbene radicate nel terreno, le piante non sono ovviamente in grado di sottrarsi agli effetti negativi della radioattività e presentano una maggiore capacità di adattamento rispetto all’uomo. Come dimostrato dai radicali cambiamenti nella loro costituzione proteica, sono in grado di migliorare la loro resistenza alla radioattività e modificare il loro metabolismo del carbonio. Nel crescere la pianta esce da se stessa, è fuori o fuori di sé due volte, già come seme in germinazione. La vita vegetale non è semplicemente esposta: è esposizione ed esteriorità.
Com’è stata l’esperienza nella zona di esclusione di Chernobyl?
È un deserto di presenze umane viventi e sorprende la fitta presenza di vita vegetale. La mia esperienza di questo territorio si è sviluppata attraverso le piante della zona, grazie all’intermediazione di un team dell’Istituto slovacco di scienze. Dal 2005 il team ha avviato un esperimento, ancora in corso, per studiare l’impatto della radioattività sulla flora. Seminano semi di lino e soia, specie note per incorporare rapidamente attraverso il loro sistema i metalli pesanti presenti nei terreni. Possono così osservare, anno dopo anno, le mutazioni del metabolismo delle piante. Ogni anno mi mandano una pianta con cui compongo una nuova presenza fotografica per l’Erbario.
Quanti anni ci vogliono ancora per decontaminare l’ambiente?
Si stima che il reattore di Chernobyl rimanga altamente radioattivo per più di 20mila anni. La radioattività non può essere completamente pulita, solo contenuta o sepolta. Subito dopo l’esplosione, anche la vegetazione contaminata della Foresta rossa, i detriti radioattivi e il suolo stesso sono stati interrati. Le piante della zona di esclusione perseguono questo sforzo di intrappolare, contenendo nei propri corpi la radioattività presente nell’aria e nel suolo. Insieme alla luce, la radioattività all’interno della pianta partecipa così alla formazione dell’impronta del proprio corpo sulla carta fotosensibile della lastra dell’Erbario. È visibile dai segni e dalle tracce un’esplosione di micro punti bruciati sulla carta.
Qual è stata precisamente la tecnica utilizzata per realizzare il progetto?
Fotografando senza macchina fotografica e ponendo il corpo delle piante su una lastra fotosensibile; infine, esponendo a una fonte di luce intensa. Con questa tecnica ho raccolto sulla superficie della carta la traccia di una presenza.
Cosa rappresenta – anche simbolicamente – un erbario?
Al di là della raccolta di esemplari vegetali classificati, il mio approccio all’erbario è quello di un erbario animato. Al di là dell’ossimoro, cerco di creare un erbario vivo, uno spazio in cui le piante siano restituite al loro stato di agenti, dove le lastre dell’erbario siano pensate come superfici attraverso le quali le piante e le loro voci possano risuonare.
Ma naturalmente l’erbario fa anche riferimento a prassi di classificazione e raccolta di specie vegetali e animali, al centro delle pratiche naturalistiche del XVIII secolo, additate come «disanimazione del mondo vivente», ridotte a un elenco di nomi latini, e strumentalizzate per fini commerciali e agronomici. Le pratiche di realizzazione dell’erbario possono così andare oltre ciò che dovrebbe produrre o raccontare, in quanto frutto delicato di un infinito e multiplo insieme di relazioni umane con il mondo. In questo senso, “Chernobyl Herbarium” invita ad aprire il nostro sguardo agli esseri vegetali, a sviluppare nuove qualità di attenzione e infine a coltivare le modalità dell’esistenza umana tra le altre dei viventi.