Le morti verdiNei paesi in via di sviluppo si uccidono sempre più attivisti per l’ambiente

È quanto emerge da un nuovo report dell’organizzazione Global Witness, che ha raccolto dati sulle morti dei difensori dell’ambiente dal 2012 a oggi. Il triste primato è della Colombia

Yamid Alonso Silva Torres, 38 anni, è stato ucciso in Colombia (Parques Nacionales Naturales)

Un nuovo report dell’organizzazione Global Witness ha portato all’attenzione pubblica un record straziante, quello del numero di attivisti e ambientalisti assassinati nel 2020. Duecentoventisette persone. In altre parole, 227 uomini e donne sono morte per aver cercato di salvare il pianeta. Secondo quanto riportato da Global Witness, quasi un terzo degli omicidi è collegato allo sfruttamento delle risorse: disboscamento, estrazione mineraria, agroindustria su larga scala, dighe idroelettriche e altre infrastrutture.

Il report ha definito le vittime «difensori dell’ambiente», identificando sotto questo termine tutti coloro che sono stati uccisi per proteggere le risorse naturali che devono essere preservate; come foreste, riserve idriche e oceani. Stiamo parlando in media di quattro persone a settimana, assassinate mentre difendevano le loro case, la loro terra, i mezzi di sussistenza e gli ecosistemi vitali per la biodiversità e il clima.

Global Witness, una ong internazionale fondata nel 1993, ha raccolto dati sulle morti dei difensori dell’ambiente dal 2012 a oggi. Le loro scoperte finora delineano un’immagine drastica e sembrano suggerire che con l’intensificarsi della crisi climatica, i crimini violenti contro coloro che lavorano per proteggere il pianeta stanno peggiorando. Il conteggio annuale dei morti è infatti aumentato verticalmente negli ultimi due anni, ed è ora il doppio rispetto al 2013. Tuttavia è certo che si tratti di una sottostima, dato che il calcolo dei decessi è basato sulla trasparenza, sulla libertà di stampa e sui diritti civili, che variano notevolmente da paese a paese. Motivo per cui, secondo gli esperti, questa «cifra scioccante» potrebbe essere ancora più alta.

«Mentre la crisi climatica si aggrava, gli incendi boschivi imperversano in aree del pianeta, la siccità distrugge i terreni agricoli e le inondazioni fanno migliaia di morti, la situazione per le comunità in prima linea e per i difensori della Terra sta peggiorando» – spiega Chris Madden, Senior Campaigner di Global Witness – «gli omicidi sono in continuo aumento; e lo confermano più studi su scala globale».

Tutte queste morti – a eccezione di una – hanno avuto luogo al di fuori del Nord America, dell’Europa e dell’Oceania. Così come la crisi climatica, infatti, anche i conflitti legati all’ambiente colpiscono in modo sproporzionato le nazioni a basso reddito. In particolare, l’America meridionale e centrale, sede della più ricca biodiversità del mondo, sono le aree più letali per coloro che cercano di resistere e combattere all’estrazione mineraria, al disboscamento e all’agrobusiness.

A vincere il triste primato della classifica è la Colombia. Nel 2020, lo stato di Bogotà è diventato teatro di più di 65 omicidi, continuando una tendenza negativa in crescita dopo l’accordo di pace del 2016, che ha alleviato il conflitto tra il governo e i ribelli delle Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia), ma ha aperto zone del paese alle industrie estrattive causando un’aggravata tensione sulle risorse. Tra le vittime colombiane più famose c’è il biologo Gonzalo Cardona, accreditato per aver salvato dall’estinzione il pappagallo dalle orecchie gialle, che stato assassinato da una banda criminale ancora non identificata, e la guardia forestale Yamid Alonso Silva Torres, ucciso a soli 38 anni vicino al parco nazionale di El Cocuy, la più grande massa glaciale in Colombia.

Per chiarire e comprendere meglio il livello di violenza e intimidazione subito dagli attivisti colombiani basta pensare al caso di Francisco Vera, un ragazzo di 12 anni – noto ambientalista e difensore della straordinaria biodiversità del paese – che ha ricevuto minacce di morte anonime su Twitter dopo aver semplicemente chiesto un migliore accesso all’istruzione per i bambini durante la pandemia di covid-19. La notizia ha suscitato indignazione in Colombia e ha fatto il giro del mondo. Il presidente colombiano Iván Duque Márquez ha criticato l’accaduto, dichiarando il proprio impegno per trovare i «banditi» che avevano inviato il messaggio. Ma ad oggi, otto mesi dopo le prime minacce, nessuno è stato arrestato.

Secondo gli esperti, la Colombia sta promuovendo e incentivando la produzione di energia, di petrolio e gas, così come l’estrazione mineraria e l’agroindustria nel suo piano economico per alleviare la profonda crisi economica causata dalla pandemia. Un’analisi del Programa Regional Seguridad Energética y Cambio Climático en América Latina ha rilevato che questo approccio esiste anche in altre parti del Sud America, in particolare in Bolivia, Perù ed Ecuador. I governi di questi stati stanno usando la necessità di uscire dalla crisi economica come scusa per invadere i territori indigeni e sfruttarne le risorse.

Tra questi c’è anche il Messico, che occupa il secondo posto nella classifica dei luoghi più letali per gli ambientalisti, con un totale di 30 vittime lo scorso anno. Ricordiamo ad esempio l’attivista indigeno messicano Óscar Eyraud Adams, assassinato per aver protestato quando i suoi raccolti si sono prosciugati dopo che la fonte d’acqua della comunità era stata deviata verso aree più ricche.

Nonostante rappresentino solo il 5% della popolazione mondiale, sono proprio le comunità indigene ad aver subito perdite maggiori, per un totale di più di un terzo delle uccisioni registrate nel 2020. Un esempio eclatante è il massacro avvenuto nelle Filippine lo scorso 30 dicembre, quando i militari e la polizia locale hanno ucciso a sangue freddo 9 indigeni Suludnon che stavano resistendo al progetto di costruzione di un’enorme diga sul fiume Jalaur a Panay, una delle isole centrali del vasto arcipelago asiatico.

Global Witness ha affermato che il suo report documenta l’uccisione deliberata di «persone che prendono posizione e svolgono azioni pacifiche contro lo sfruttamento ingiusto, discriminatorio, corrotto o dannoso delle risorse naturali o dell’ambiente». A sua volta, Chris Madden ha invitato i governi di tutto il mondo a «prendere sul serio la protezione degli ambientalisti», aggiungendo che anche le aziende devono iniziare a «mettere le persone e il pianeta prima del profitto»; altrimenti, ha avvertito, «sia il crollo climatico che gli omicidi continueranno».

«Questo set di dati è un altro duro promemoria del fatto che combattere la crisi climatica comporta un fardello insopportabile per alcuni, che rischiano la vita per salvare le foreste, i fiumi e le biosfere, che sono essenziali per contrastare l’insostenibile riscaldamento globale. Tutto ciò deve finire». Ma fino a quando i governi non daranno la priorità alla protezione dei diritti umani e ambientali rispetto alla protezione delle industrie, le cose purtroppo potranno solo peggiorare.

Global Witness, supportata da altre associazioni e insieme ad una rete globale di attivisti, ha lanciato un forte appello affinché i governi inizino a lavorare sulla responsabilità legale per quegli attori economici che hanno «contribuito e beneficiato degli attacchi contro i difensori del territorio e dell’ambiente». L’organizzazione ha inoltre delineato alcune proposte per governi e industrie affinché si riducano questi crimini di di violenza.

In molti ripongono speranza nel nuovo disegno di legge in fase di stesura da parte della Commissione Ue, che richiederebbe alle aziende di condurre una due diligence obbligatoria sui diritti umani e ambientali delle loro catene di approvvigionamento. Anche le Nazioni Unite stanno lavorando a un trattato vincolante che toccherà il rapporto tra affari e diritti ambientali, ma c’è ancora molta strada da fare prima che tali misure riducano l’impunità che circonda le morti degli attivisti che cercano di salvare il pianeta.

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