Turné con CraccoCorrete a vedere Dinner club, in tv non c’era tanto talento dai tempi di Aniene

Grazie, Prime, per aver prodotto questa meraviglia con Abatantuono, Ferilli, De Luigi, Favino e Litizzetto, dopo aver fatto il programma più scarso della pandemia (“Lol”). E grazie, Prime, per aver scoperto come avere un cast perfetto: coprirlo di soldi. Ma ora vogliamo sapere la vera verità sul perché Mastandrea non mangia cose bianche

Photo by Mario Caruso on Unsplash

Innanzitutto grazie. Grazie a te, autore di “Dinner club” che fai partire Diego Abatantuono e Carlo Cracco su una Pontiac che non può non essere un omaggio a noi ragazze del secolo scorso, noi per le quali Abatantuono non è mai sceso dalla macchina di “Turné”, quella i cui cerchioni facevano «Katmandu, Katmandu, Katmandu».

E grazie a te, Prime video, che dopo aver fatto il programma più scarso della pandemia, “Lol”, quello che ha fatto schifo a tutti ma tutti l’hanno guardato perché «i bambini ridevano», e che nostalgia del secolo scorso, quando non dovevamo abbassare i nostri consumi culturali per condividerli con tredicenni ontologicamente scemi, grazie a te che hai fatto una delle cose più belle che abbia visto alla tele in questo disgraziato secolo. Non vedevo tanto talento tutto assieme dai tempi di “Aniene”.

E grazie a te, ufficio scritture di Prime, che hai capito la cosa più importante, quella che nel secolo scorso invocava Jerry Maguire: «Show me the money». Se li copri di soldi, quelli bravi vengono persino a fare una roba nuova, senza precedenti e senza garanzie di successo, tranne il fatto che se metti insieme sei colossi l’insuccesso è difficile (sì, ci saranno andati anche perché il cinema era fermo e i set chiusi, ma secondo me più per il bonifico). Se vuoi quelli bravi, devi coprirli di soldi: non si fanno le meraviglie coi budget simbolici.

Per chi non è nella mia rubrica telefonica, e non ha quindi ricevuto da me venerdì messaggi entusiasti, e non ha quindi risposto «ma figurati», e non ha poi però passato sabato e domenica a vedere Cracco che dice che da giovane voleva farsi prete, qualcuno al desco domandare cosa poi fosse successo, e Fabio De Luigi entrare con un controtempo precisissimo a dire «ha scoperto la figa»; per chi dopo i «ma figurati» non mi ha poi scritto che stava ridendo alle lacrime; per quegli infelici pochi cui non sto cantando da tre giorni le lodi di “Dinner club”, occorrerà forse spiegare cos’è.

Non è un reality, non è un talent, non si vince niente. (Bravissimo chiunque abbia avuto l’idea di usare Sabrina Ferilli e il suo «io devo vincere» per veicolare il concetto che si sta vedendo – nel suo caso: interpretando – una cosa completamente diversa).

È una via di mezzo tra una commedia francese in cui i borghesi stanno a tavola e parlano di quel che capita (e quel che capita è sempre metafora di qualcos’altro), e una “Grande Abbuffata” senza il lato tragico. Uno alla volta, i protagonisti (oltre a quelli già citati: Luciana Littizzetto, Pierfrancesco Favino, Valerio Mastandrea) girano una regione assieme a Cracco, mangiano cose assurde o meravigliose, e da lì discende il menu della cena che prepareranno per gli altri cinque.

“Dinner club” non somiglia a niente, e quindi non bastano le lodi per chi sia riuscito a realizzarlo. Immagino le riunioni. Immagino i «sì ma il premio?». Immagino i «sì ma la motivazione?».

Il cast è perfetto, cioè è il contrario del cast di “Lol”. È tutta gente così risolta, così affermata, così senza niente da dimostrare che nessuno ha bisogno di smaniare per primeggiare. Ed è tutta gente assai più dotata di buone battute e tempi comici dei disgraziati del cast di “Lol”, e che perciò sa lasciare spazio ai comprimari. Quando lo guarderete, avrete modo di apprezzare Mastandrea che recita impermalimento perché il coltivatore di fichi parla solo con Cracco; e Abatantuono che si presta a fare da spalla alle signore sarde. (Grazie a chi si è sobbarcato l’ingrato lavoro di trovare cuochi e agricoltori che avrebbero tranquillamente potuto essere caratteristi in un Monicelli).

Come tutte le favolosità, “Dinner club” è pieno di influenze. C’è dentro persino “Succession”, i ricchi senza contanti che si fanno dare da Greg, il nipote scemo e povero, gli unici venti dollari che ha per prendere una bibita alla macchinetta. Cracco fa quello che gira senza soldi, la Ferilli fa quella cui tocca saldare il conto dal salumiere maremmano. Più avanti nelle puntate, Favino farà quello cui tocca pagare i dolci alle suore di clausura siciliane. Si sbaglia, mette nella ruota cinquanta euro in più. Non glieli restituiscono. Applausi agli sceneggiatori, ma pure agli esecutori.

Il cast è così perfetto che ho fatto moltissima fatica a fare la cosa in cui più amo intrattenermi dai tempi della prima “Isola dei famosi”: il fantacast dell’edizione successiva.

Direi: Silvio Orlando, Nancy Brilli, Francesco Vezzoli, Paola Cortellesi, Makkox, Alessandro Baricco. Oppure: Luca Bizzarri, Alessandro Borghi, Bebe Vio, Nanni Moretti, Corrado Guzzanti, Claudia Pandolfi.

E poi, sempre per la seconda edizione, che uno dei viaggi sia in Frecciarossa, e il partecipante ne torni con la ricetta del tramezzino di Cracco: quello sì sarebbe servizio pubblico.

In attesa di questa seconda edizione, chiedo a nome di tutti gli italiani che hanno già visto la prima stagione di “Dinner club”, e di quelli che lo vedranno, un documentario di almeno due ore su Valerio Mastandrea che non mangia cose bianche. Non mangia il pane col formaggio, dice, perché il formaggio è bianco e lui non mangia cose bianche. Cracco non gli chiede perché allora mangi il pane. Ci si sofferma, certo, e poi ci torneranno su anche a cena con gli altri, ma non quanto avrei desiderato. È lo stesso Mastandrea a notare la propria contraddizione – mangia l’uovo – ma il Paese ha diritto di saperne di più.

Quale cibo bianco l’ha traumatizzato? Può essere davvero la scena dei formaggini ingozzatigli sul seggiolone che racconta a tavola, e di cui esiste un Super8 che il Paese ha diritto di vedere? E cosa capiremmo in più di lui se, per dire, scoprissimo che una seppia ha tentato di divorarlo? Ci si potrebbe imperniare anche una stagione di “In Treatment”: chi non guarderebbe Mastandrea dall’analista?

Quando Mastandrea assaggia per la prima volta la mozzarella, Cracco dice a tutti «è stato bravissimo», come le madri dei bambini difficili. Quando lui e Abatantuono sono dalle anziane sarde, e Cracco chiede loro se abbiano mai tradito i mariti, la sarda lo guarda come se il bambino difficile fosse lui: e lo veniamo a dire a te. A te, davanti alle telecamere. Che per te sono normali, ma guarda che mica è normale. Le sarde non lo dicono, noi non sappiamo neanche più pensarlo.

Speriamo che nessuno equivochi. Speriamo che nessuno pensi che lo vedi, lo fanno anche loro, mica è prerogativa di burinate come il “Grande Fratello”: si può essere sé stessi davanti alle telecamere. No che non si può, se non hai studiato decenni come fare te stesso in scena.

L’altro giorno Courtney Love ha dato un’intervista per il trentennale di “Nevermind”. A un certo punto diceva che certo, Kurt Cobain era modesto, ma la sua modestia pubblica era un’ostentazione: faceva della modestia quel che Kate Moss fa degli zigomi. Ecco, non prendete esempio da quei sei, se vi sembra che si limitino a stare lì come a cena tra amici senza telecamere: hanno studiato, per fingersi naturali. Non sono sé stessi: sono una versione di sé stessi che funziona una volta messa in scena. Farlo sembrare facile è parte del mestiere.

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