I titoli dei giornali degli ultimi anni lanciano segnali nefasti. Le minacce delle temperature sempre più elevate, degli incendi sempre più frequenti, degli uragani, delle inondazioni e delle tempeste ma al tempo stesso della siccità e della scarsità d’acqua, sono ormai all’ordine del giorno. Questi sono infatti alcuni effetti (ben documentati) del cambiamento climatico che sta devastando il pianeta. Ma la climate crisis e la crescente frequenza di disastri meteorologici estremi stanno portando anche all’intensificazione della disuguaglianza globale. Perché il cambiamento climatico non sta avendo un effetto catastrofico solo sul pianeta, ma anche, di riflesso, sulle persone.
Mentre i raccolti, le risorse idriche e l’agricoltura continuano a soffrire, i mezzi di sussistenza vengono distrutti e le comunità devastate. Crescono le controversie violente per terra e acqua. E a causa dei conflitti per le risorse sempre più scarse, le persone sono costrette a migrare per soddisfare i propri bisogni primari.
Quella della migrazione climatica è una conseguenza meno conosciuta e meno discussa, ma sempre più diffusa. Il nuovo report Groundswell del World Bank Group, aggiornato allo scorso 13 settembre, ha infatti rilevato che il cambiamento climatico è un fattore di migrazione sempre più potente, che potrebbe costringere più di 200 milioni di persone al mondo a lasciare la propria casa e spostarsi dentro e fuori i confini dei propri paesi entro il 2050.
Lo studio ha esaminato come l’impatto dei cambiamenti climatici a insorgenza lenta, come ad esempio la scarsità d’acqua, la diminuzione della produttività delle colture e l’innalzamento del livello del mare, porteranno a milioni di – come vengono descritti – «migranti climatici».
L’Organizzazione mondiale per le migrazioni sottolinea che la crisi climatica non è altro che un moltiplicatore di minacce: da un lato, processi come l’innalzamento del livello del mare, la salinizzazione del suolo per uso agricolo, la desertificazione e l’aumento della scarsità d’acqua; dall’altro fenomeni meteorologici estremi come uragani, cicloni e alluvioni.
Nello scenario più pessimistico, quello in cui non viene svolta alcuna azione per combattere quest’emergenza e quindi persiste l’innalzamento del livello di emissioni e lo sviluppo diseguale, il report del World Bank Group prevede che circa 216 milioni di persone saranno costrette a emigrare. Tuttavia, anche nelle ipotesi più positive, quelle in cui si pronostica una riduzione delle emissioni e uno sviluppo inclusivo e sostenibile, ci saranno comunque 44 milioni di persone costrette a lasciare le proprie case per via di danni ormai irreparabili.
Qualsiasi sia lo scenario a cui andremo incontro, già nel 2030, inizieremo a vedere hotspot della migrazione climatica. Infatti, secondo la ricerca, ci saranno macro-regioni particolarmente colpite, come l’America Latina, il Nord Africa, l’Africa sub-sahariana e l’Asia centrale. Zone della Terra in cui già si combatte contro povertà, disuguaglianza e ingiustizia. «Questa è la realtà umanitaria che stiamo vivendo al momento e siamo preoccupati che la situazione peggiorerà, soprattutto dove la vulnerabilità è già più acuta» ha affermato il professor Maarten van Aalst, direttore dell’International Red Cross Red Crescent Climate Centre.
La migrazione climatica non è un fenomeno nuovo e sconosciuto; tuttavia un problema che spesso non viene discusso è come tale forma di migrazione possa intrappolare le persone più vulnerabili a una vita di schiavitù. No, questa non è una forzatura, e neanche semplice allarmismo. È una realtà già presente in alcune parti del mondo.
Se il concetto di schiavitù vi sembra appartenga al passato, vi sbagliate di grosso. Oggi come oggi, il numero di “schiavi” è altissimo, più alto rispetto a qualsiasi altro momento della storia. Secondo la Global Estimate of Modern Slavery, infatti, 40 milioni di persone al mondo vivono in schiavitù. La condizione di “schiavitù moderna” colpisce in modo sproporzionato i più poveri ed emarginati; in primis donne, bambini e minoranze etniche. E il cambiamento climatico e la migrazione indotta dal clima accrescono le vulnerabilità esistenti.
I ricercatori dell’Istituto Internazionale per l’Ambiente e lo Sviluppo (Iied) e l’Anti-Slavery International hanno analizzato casi di schiavitù moderna nell’Africa occidentale e nella regione di Sundarbans, la più grande foresta di mangrovie del mondo che occupa parte dell’India e del Bangladesh. Insieme hanno evidenziato come le condizioni meteorologiche che spingono le persone a spostarsi, mettono queste popolazioni a maggior rischio di sfruttamento (e non solo).
Nello studio, per esempio, viene riportato come la siccità nel nord del Ghana ha costretto giovani uomini e donne a migrare verso le principali città dello stato africano. Qui, molte donne iniziano a lavorare come facchine e vivono una vita a rischio di tratta, sfruttamento sessuale o servitù per debiti – una forma di schiavitù moderna in cui le persone sono intrappolate nel lavoro e sfruttate per pagare un enorme debito contratto da loro stessi o dalla famiglia.
Certo, i fattori di vulnerabilità che portano alla schiavitù moderna sono diversi, complessi e influenzati da molte variabili. Devono infatti essere considerati i rischi socio-economici, quelli politici, culturali e istituzionali, che però, a loro volta, sono sempre più aggravati dagli impatti dei cambiamenti climatici e dal degrado ambientale.
Del totale di persone nel mondo ritenute vittime del lavoro forzato – una delle forme più comuni di schiavitù moderna – il 56% si trova nella regione Asia-Pacifico, il 18% in Africa e il 9% in America Latina. Il cambiamento climatico aggraverà ulteriormente le minacce in queste aree con l’aumento dei flussi migratori in Nord America e Europa.
Non che qui, però, la schiavitù moderna non esista. Infatti, sebbene gli Stati Uniti siano valutati come “a rischio medio” e siano classificati al 143° posto nel Modern Slavery Index (Msi), i lavoratori stranieri privi di documenti costituiscono attualmente un decimo della forza lavoro della California, e migliaia di loro lavorano in condizioni di vera e propria schiavitù nel settore dell’agricoltura. Il problema, lo sappiamo bene, si ripresenta identico in Italia e in altri paesi europei, come Spagna, Portogallo, Grecia e Regno Unito.
Fran Witt, consulente per i cambiamenti climatici e la schiavitù moderna presso Anti-Slavery International, ha dichiarato: «La nostra ricerca mostra l’effetto domino del cambiamento climatico sulla vita di milioni di persone. Gli eventi meteorologici estremi contribuiscono alla distruzione ambientale, costringendo le persone a lasciare le loro case e rendendole vulnerabili alla tratta di esseri umani, allo sfruttamento e alla schiavitù».
Questo report non è altro che un duro avvertimento per i leader mondiali, e un invito a garantire che gli sforzi per affrontare l’emergenza climatica prendano in considerazione anche il (troppo spesso sottovalutato) problema della schiavitù moderna. I responsabili e i pianificatori delle politiche per il clima e lo sviluppo hanno infatti il dovere di riconoscere che le milioni di persone sfollate a causa del cambiamento climatico sono – e saranno – esposte alla schiavitù nei prossimi decenni.
Ritu Bharadwaj, ricercatrice dell’Iied, ha commentato così: «Il mondo non può continuare a chiudere un occhio sul lavoro forzato, la schiavitù moderna e la tratta di esseri umani alimentati dagli sconvolgimenti del clima. Affrontare questi problemi deve essere parte integrante dei piani globali contro il cambiamento climatico».