«Aboliremo il Regolamento di Dublino», aveva promesso la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel discorso sullo Stato dell’Unione. Ma non l’ultimo, pronunciato qualche giorno fa, bensì quello del 2020.
Il 23 settembre dell’anno scorso, la Commissione europea presentava il New Pact on Migration and Asylum, una serie di misure per cambiare radicalmente le politiche migratorie dell’Ue. Dopo 12 mesi, però, nessuna delle cinque proposte legislative contenute nel pacchetto è stata approvata. Sul tema delle migrazioni, soltanto due misure, ereditate dalla Commissione precedente, sono andate in porto: la Direttiva sulla Blue Card, che definisce i criteri per l’ingresso legale nell’Ue dei lavoratori stranieri, e l’istituzione di una nuova Agenzia europea per l’asilo.
Troppo poco per essere soddisfatti: i progressi sono dolorosamente lenti sul resto dei dossier, ha ricordato von der Leyen nel discorso sullo Stato dell’Unione del 2021. Non che il tema sia passato di moda: i flussi migratori rimangono al centro del dibattito europeo per quanto succede sulle coste mediterranee e sulla rotta balcanica, ma ormai anche per la situazione al confine tra la Bielorussia e i Paesi baltici.
Eppure non sembra ci siano per ora passi avanti significativi nei negoziati sui punti più controversi del Pact on Migration, come ha confermato a Linkiesta anche un portavoce della Commissione. «Chiamarlo “patto” può dare l’idea che ci fosse un accordo tra gli Stati europei, ma non è affatto così», spiega a Linkiesta Sergio Carrera del Centre for European Policy Studies (Ceps). Mentre il Parlamento europeo sta analizzando le proposte nelle commissioni competenti ed elaborando i suoi emendamenti, al Consiglio dell’Ue è ancora tutto fermo.
Questo accade soprattutto perché i Paesi mediterranei, che pure dovrebbero essere interessati a modificare l’attuale politica migratoria, non trovano adeguate le proposte sul tavolo. Il principio del Regolamento Dublino, per cui uno straniero entrato illegalmente nell’Ue può richiedere asilo solo nel Paese di primo ingresso, resterebbe operativo, anche se con un nuovo nome e con qualche eccezione in più. Per questo a novembre 2020 Italia, Spagna, Grecia e Malta hanno indirizzato una lettera formale ai vertici comunitari, lamentando lo «squilibrio nei meccanismi di solidarietà e responsabilità».
Il problema principale, secondo l’analisi di Carrera, è che la proposta presentata punta al consenso di tutti gli Stati membri. «La combinazione prevista dalla Commissione non risolve nessuno dei problemi. Anzi, per i Paesi del Sud ne crea di nuovi». Le procedure di asilo velocizzate, dette pre-entry screening, non sono accompagnate da un meccanismo di ricollocazione obbligatoria delle persone migranti, che quindi continuano a restare sul territorio dello Stato in questione. «La Commissione non lo dice, ma ciò si tradurrà in nuovi hotspot ai confini e migranti detenuti mentre aspettano l’esito della loro domanda, in una dinamica non in linea con i nostri principi. Il pre-entry screening è infatti una finzione giuridica: si analizzano i casi come se le persone non si trovassero ancora sul territorio nazionale».
Per l’esperto, c’è consenso sul fatto che il Regolamento di Dublino non funziona, ma manca la volontà di trovare alternative. Le proposte legislative avanzate non richiedono il voto all’unanimità dei ministri dei Paesi dell’Ue, bensì la maggioranza qualificata (55 per cento degli Stati con almeno il 65 per cento della popolazione). Ma, come ha ammesso il commissario allo Stile di vita europeo, Margaritis Schinas, in una recente intervista al quotidiano Politico, per le norme che regolano la migrazione, procedere a maggioranza qualificata sarebbe una scelta complicata dal punto di vista politico.
In questo modo, però, lo stallo è destinato a perdurare. «Come si può trovare un accordo con Paesi come Polonia e Ungheria, che sono attualmente sotto procedura di Articolo 7 per il mancato rispetto dello Stato di Diritto?», si chiede Sergio Carrera, secondo cui il progetto di riforma lanciato un anno fa non era necessario. «Sarebbe meglio implementare la politica migratoria attuale e applicare le regole che già ci sono. Anche il Regolamento di Dublino prevede delle clausole di eccezione per motivi umanitari e i pushback, i respingimenti collettivi di migranti alle frontiere sarebbero in teoria già vietati, anche se si verificano comunque».
Le prospettive per l’esperto sono fosche anche perché i rappresentanti degli Stati membri hanno interesse soltanto a prevenire l’arrivo di migranti piuttosto che concordarne la gestione: prova ne sia la linea tenuta sulla crisi afghana. «La priorità politica dell’Ue è quella di chiudere i confini e aumentare i rimpatri. Ma la premessa è erronea: ci si concentra su chi dev’essere espulso anche se buona parte delle persone che arrivano ha diritto di essere accolta». Il tasso attuale di riconoscimento di un qualsiasi tipo di protezione nell’Ue è al 42 per cento.
Anche al momento della presentazione del piano, nel settembre 2020, i commissari Schinas e Johansson hanno insistito sull’importanza di distinguere tra rifugiati a cui garantire protezione e migranti senza diritto all’asilo, da rimpatriare in maniera più rapida ed efficace. Secondo un recente rapporto della Corte dei Conti europea, in quest’ambito la cooperazione dell’Ue con Paesi terzi ha prodotto negli ultimi anni «risultati limitati»: dal 2008 circa 500mila stranieri ogni anno ricevono l’ordine di lasciare l’Unione, ma meno di uno su cinque viene effettivamente allontanato. I motivi vanno dalla mancanza di sinergia fra i Paesi europei alla difficoltà di stipulare accordi con quelli extra-Ue. La Commissione ha sottolineato più di una volta di essere al lavoro in questo senso.
Questa «ossessione per i rimpatri» è una caratteristica del Pact anche per José Antonio Moreno Díaz, che è relatore del pacchetto migratorio al Comitato economico e sociale europeo. «Dovrebbe piuttosto chiamarsi “Patto sul controllo delle frontiere”. Poche pagine sono dedicate alla gestione effettiva delle migrazioni, il resto è tutto incentrato su controlli ed espulsioni».
La mancanza di una ripartizione obbligatoria in quote dei richiedenti asilo arrivati ai confini dell’Ue è un ostacolo insormontabile per i Paesi più esposti ai flussi di migranti irregolari e le regole di compensazione previsti dalla Commissione non sono abbastanza. Quando la pressione su uno Stato membro è troppo intensa, infatti, gli altri sono chiamati a supportarlo, ma possono scegliere se farlo accogliendo alcuni richiedenti sul proprio territorio, organizzando il rimpatrio di quelli che hanno ricevuto un responso negativo, oppure finanziando le strutture di accoglienza dello Stato in difficoltà. «Questa dinamica mi sembra semplicemente ridicola. Non capisco come possa essere considerata una condivisione solidale».
Pur riconoscendo al patto alcuni aspetti ambiziosi e utili, come la realizzazione di un database comune europeo per gli ingressi di migranti (Eurodac) o l’idea di una flotta comunitaria per i salvataggi in mare, Moreno Díaz vede principalmente una ripetizione dei paradigmi utilizzati in passato dall’Ue nell’approccio alle migrazioni: «A parole i commissari hanno detto di voler cambiare la narrativa sull’immigrazione, ma nella pratica guardano solo a quella illegale».
Nonostante il tentativo di accontentare tutti perseguito dalla Commissione, i rappresentanti degli Stati membri sono riluttanti a procedere anche perché l’immigrazione resta un tema molto sensibile e divisivo per l’opinione pubblica. L’imminenza delle elezioni in Germania e in Francia (dove sono previste per l’aprile 2022), spiega Moreno Díaz, non ha aiutato. «Il Pact on Migration resterà bloccato finché non interverrà una presidenza di turno del Consiglio Ue forte e credibile, in grado di imporlo nell’agenda». Il prossimo semestre tocca proprio al governo francese, che avrebbe forse il physique du rôle per condurre le trattative, ma probabilmente non la volontà politica di farlo.