«Con l’attentato alle Torri Gemelle è cambiato tutto: la realtà del terrorismo e la sua percezione, ma anche la nostra vita quotidiana. Fu un’azione sorprendente ma non inattesa, perché il fuoco anti americano dell’estremismo jihadista covava da tempo e s’era già materializzato», spiega al Corriere Franco Gabrielli, già capo della Polizia e ora sottosegretario con delega alla sicurezza della Repubblica, vent’anni dopo l’11 settembre 2001 e a pochi giorni dalla ritirata disastrosa degli Stati Uniti dall’Afghanistan.
«La caduta di Kabul è l’esito di un’avanzata più rapida del previsto ma non imprevedibile», ammette Gabrielli. «Dobbiamo fare tesoro degli errori, anche interpretativi, commessi in passato e non ripeterli oggi, per fronteggiare al meglio la minaccia».
Perché, secondo il sottosegretario, la vittoria dei Talebani aumenta ora il rischio di nuovi attacchi contro l’Occidente: «La sconfitta di un esercito addestrato e spalleggiato dagli occidentali da parte di bande giudicate poco più che raccogliticce può innescare un effetto emulazione, per veicolare il messaggio che si può non solo resistere ma anche punire una civiltà considerata nemica. È successo vent’anni fa quando i terroristi dimostrarono di poter colpire gli Stati Uniti sul loro territorio e con i loro mezzi, può succedere oggi ovunque».
La verità, dice Gabrielli, è che «restiamo sotto una minaccia che non è mai venuta meno, è un errore valutarla sulla base degli eventi che ci toccano più da vicino, come gli attentati del 2004-2005 in Spagna e Gran Bretagna, o del 2015-2016 in Francia e Belgio. Quelle sono manifestazioni esteriori, il pericolo resta anche quando non accade nulla. La minaccia è immanente, e il rischio che diventi imminente in una situazione come quella attuale aumenta».
Non ci sono allarmi particolari per il nostro Paese, assicura. «Sono invece aumentate le segnalazioni di rischio in Afghanistan e in generale contro obiettivi statunitensi». Ma i nomi chiamati a formare il nuovo governo dei Talebani non lasciano ben sperare: «È una composizione che sancisce, al momento, la vittoria dell’ala militare e la presenza in posti chiave – primo ministro, Interno e Difesa – di persone addirittura ricercate sul piano internazionale come terroristi. Non è un buon segnale né un’apertura verso l’Occidente, come l’assenza di personalità della società civile o femminili. E ora il divieto alle donne di praticare sport che “ne espongano i corpi”. Resta il contrasto tra l’anima più tradizionalista e quella meno ortodossa, che va considerato insieme all’influenza del sedicente Stato islamico nella regione del Khorasan, che sembra rappresentare il maggior pericolo, e ai rischi derivanti da altre situazioni». Come, ad esempio, «l’antagonismo fra Isis-Khorasan, che contrasta i Talebani, e Al Qaeda che invece li appoggia, può tradursi in nuove azioni di forza che possono manifestarsi non solo su quel territorio».
Che si può fare? «In un quadro così magmatico è evidente che bisogna allargare il più possibile il novero dei soggetti da mettere intorno allo stesso tavolo, per coinvolgerli in una possibile soluzione», risponde Gabrielli. «Non c’è alternativa, come ha lasciato intendere il presidente Draghi puntando a un G20 sull’Afghanistan, perché il G7 non basta. È complicato perché ci sono interessi diversi e talvolta contrapposti; basti pensare al coinvolgimento di Cina e Russia, Pakistan e India, Iran e Stati Uniti. Ma è una strettoia che si sta percorrendo con coraggio».
Si può anche anche a dialogare con i Talebani, dice Gabrielli, «ma a determinate condizioni. Quello che sta avvenendo conferma la necessità di procedere con cautela, traendo giudizi dai fatti più che da pregiudizi o auspici. Verificando in concreto, ad esempio, la disponibilità al rispetto dei diritti fondamentali. Considerare i Talebani diversi da vent’anni fa può essere un azzardo, ma vederli sempre uguali, come se niente fosse mutato, è da miopi. È necessario capire bene chi si ha davanti e poi trarne le conseguenze».
Tra le conseguenze ci possono essere nuove guerre? «Non sono auspicabili, perché è vero che la democrazia non si esporta con la forza. Tuttavia negare che i diritti e le libertà si possano difendere anche con la forza significherebbe rinnegare l’aiuto ricevuto dagli eserciti alleati nella guerra di liberazione da cui è nata la nostra Repubblica», risponde. «È un tema delicato e complesso, ma anche nelle missioni di pace è insito l’uso della forza. Il problema è come si esercita, e la gestione dell’Italia delle proprie missioni all’estero è forse una delle ragioni per cui non siamo divenuti, fino ad ora, obiettivo del terrorismo jihadista, insieme alla prevenzione esercitata dai nostri apparati di sicurezza, alle oltre 600 espulsioni preventive dal 2015 a oggi e ad altre misure adottate».
Quanto alle polemiche di Salvini sull’immigrazione e il rischio di terrorismo, risponde: «Le due tesi opposte, sostenere o escludere a priori che l’arrivo di stranieri comporti un aumento del rischio terrorismo, sono entrambe senza fondamento. Non c’è una strategia che fa dell’immigrazione un veicolo per gli attacchi in Occidente, tant’è che gli ultimi attentati sono stati realizzati quasi sempre da persone già presenti nei Paesi colpiti, se non da cittadini di quei Paesi; ma è anche vero che l’attentatore che uccise tre persone lo scorso anno a Nizza era sbarcato a Lampedusa. Bisogna tenere la guardia molto alta, senza generalizzazioni né sottovalutazioni. Dopodiché sull’immigrazione andrebbero fatti altri ragionamenti, a partire dall’integrazione».