È settembre, è primo giorno di scuola, si rianima la chat dei genitori, un buon non anno nuovo anche a voi. Pensavamo che sarebbe cambiato qualcosa, con una fiducia immotivata nel futuro, perché siamo millennial, siamo naif, siamo i dimenticati, i risospinti senza posa nel passato, e infatti non abbiamo imparato niente: ma che brutta fatica. Si torna a scuola, sempre la stessa, quella dove ti chiedono se per caso tu abbia un ventilatore che ti avanza, quella con le finestre che non si aprono, quella con il dopo scuola che non si sa quando, non si sa dove, non si sa, affari tuoi, scavicchi ma non apra.
Genitori millennial stiamoci vicini, tanto non frega niente a nessuno. Siamo poco affascinanti? Non ci trovate interessanti? Vi aspettiamo lì, sulla riva del fiume, quando i nostri figli saranno classe dirigente, quando saranno medici che non vi cureranno, avvocati che non vi difenderanno, casalinghe che non cucineranno.
Generazione tirata su a latte materno fino al termine della notte, a guardare il mondo da un triangolo di Pikler, una generazione di gemelli in una quantità che ancora mi colpisce. Cosa diventeranno i nostri figli? Il mio dice che vuole diventare «scienziato e attore», e mi sembra perfettamente aderente alla realtà, Nobel e Nastro d’argento, brillante come Hedy Lamarr.
Li educheremo al genere neutro? Al «puoi diventare tutto quello che vuoi, anche una sedia»? Al «devi essere la migliore versione di te stesso», qualunque cosa significhi? Ci spaventano gli effetti collaterali di tutto, non vedo perché non debba spaventarci questo continuo tendere al «va bene tutto se sarai te stesso», posizionato sul lungo termine.
Essere sé stessi è un lavoro molto duro, soprattutto perché è gratis. Siamo la generazione dei genitori che ha avuto da subito a disposizione la tecnologia. Ci siamo messi le telecamere in casa e non abbiamo paura di usarle. John Marsden, autore australiano di “The art of growing up”, parla di «the problematic state of parents being in love with their children, rather than loving them». Siamo innamorati, ma non li amiamo. Se così fossi, sparatemi.
Puoi essere te stesso, a patto che tu sia all’altezza delle mie aspettative. Vengo recentemente a conoscenza di due cose: la prima è che la generazione di mio figlio si chiama Generazione alpha, nata dalla tempesta, prima del suo nome, e io che non l’avevo mai sentito, immagino perché i millennial sono stati completamente dimenticati e pure i loro figli, ma tanto vi aspettiamo sulla riva del fiume. Se di notte sentite che qualcuno vi tira i piedi, quel qualcuno è lo spirito del Natale millennial.
Quella di mio figlio è la prima generazione interamente nata nel ventunesimo secolo. Che avanguardia, che abisso tra Novecento e Duemilaventi. Nativi digitali, ma siamo qua con i giocattoli in legno, luddisti per procura, signori della corte ho concluso. La seconda è che esiste un movimento che si chiama “le madri pentite”. Sono contenta che tu sia mio figlio, ma odio essere madre. Non ho capito, quello si chiama essere amici. Chiamatemi pure Cassandra, ma ho già chiare premonizioni: cause per risarcimento a non finire, psicanalisti milionari, nuovi reati da denunciare, e mi sembra pure il minimo.
Un giorno i nostri figli leggeranno i nostri post e ci uccideranno nel sonno. Legittima offesa e lesa maternità, signor giudice conceda la grazia. Mi sto rendendo conto che la narrazione popolare sulla maternità è molto diversa da come l’ho vissuta io. Sono fortunata? Sono miracolata? O semplicemente vivo come se non tutto fosse un sabotaggio della società brutta e cattiva? C’è una canzone che fa “ho chiamato i miei insuccessi sfortuna”, e mi sembra che riassuma proprio tutto quello che c’è da dire sul mondo. Intanto metto un bel divano sulla riva del fiume, che futuro fantastico, ci vediamo lì.