Il compito dell’ingegner Brenneisen e del suo assistente fotografo doveva essere proprio quello di effettuare delle riprese aeree che sarebbero servite per disegnare le nuove carte geografiche. D’altronde, nei quasi venticinque anni che aveva trascorso all’Istituto di Berna, era stato quello il lavoro di Hofer.
Questo artigiano della fotografia, come si definiva, che aveva imparato a scattare nell’arma dell’Artiglieria, era diventato un maestro delle riprese in volo, anche se fino ad allora si era cimentato solo con le Alpi, e non aveva la minima idea di cosa lo aspettasse nell’Artico.
Il caso volle che l’estate successiva Brenneisen non potesse partecipare ad una nuova spedizione, e così Hofer ne prese il posto (l’ingegnere sarebbe poi morto in un incidente aereo sulle Alpi Bernesi), accompagnando Lauge Koch anche nei viaggi dell’estate 1951 e 1954.
Durante quelle quattro estati Hofer scattò in Groenlandia circa quattromila fotografie con la sua Alpa Reflex, alternandola con una Fairchild K 20 per le riprese aeree. Quattromila foto di montagne e fiordi, ghiacciai e iceberg, ma anche di eschimesi in canoa e cani da slitta, buoi muschiati e lemming, uccelli e fiori artici, il grosso delle quali in bianco e nero (ma qualcuna anche con le prime pellicole Kodachrome): 78 sono raccolte nel libro che pubblicò nel 1957, che – a giudicare dalle traduzioni in inglese, francese e italiano che se ne fecero – conobbe all’epoca un certo successo.
Ma il suo contributo maggiore il fotografo lo diede alla definizione di nuovi nomi geografici: quasi un terzo dei 550 toponimi introdotti da Lauge Koch tra il 71° e il 79° parallelo nord, per battezzare promontori e insenature, cime e altipiani, fiordi e fiumi, deve la sua origine agli scatti che fece Hofer, e alla sua capacità di saper leggere un paesaggio, nei minimi dettagli, da un aereo a oltre mille metri di quota.
Riviera artica fu l’unico libro pubblicato in vita da questo tecnico di mezza età, stempiato e con la barbetta, che dopo quelle quattro estati in Groenlandia continuò il suo lavoro di sempre a Berna, lasciando perdere le sue tracce; fino al pensionamento nel 1967, e alla morte vent’anni più tardi.
Hofer non avrebbe mai potuto immaginare che, più di mezzo secolo dopo la pubblicazione, il suo libro sarebbe finito al centro di un dibattito tra climatologi e negazionisti del cambiamento climatico. E non per le sue foto, ma per il disegno di una cartina geografica.
Successe che nel settembre del 2005 un curioso alpinista esploratore-compositore californiano, tale Denis Schmitt, un linguista di Berkeley già compagno di studi di Noam Chomsky, con la passione per il Grande Nord e la musica, scoprì durante una delle sue navigazioni in Groenlandia un’isoletta non segnata sulle mappe, al largo della Terra di Fleming.
Schmitt conosceva bene quel tratto della costa nordorientale, sopra al fiordo di Scoresby Sund; ed era sicuro che quell’isola fosse stata attaccata alla terraferma almeno fino al 2002, coperta com’era di ghiacci e neve. Lo scioglimento della calotta polare aveva però fatto emergere la sua vera forma, e ora c’era un tratto di mare lungo 600 metri a separare le rocce dalla costa.
Militante ambientalista legato al Sierra Club, la più antica organizzazione ecologista americana, Schmitt ebbe l’idea di pubblicizzarla come «l’isola del riscaldamento»: Uunartoq Qeqertaq, in lingua inuit. Un colpo di genio: il «New York Times» se ne occupò con un lungo articolo, giornali e trasmissioni televisive cominciarono a parlarne. L’isola era la prova evidente del cambiamento climatico in atto, al punto che per qualche tempo divenne anche una tappa delle rare navi da crociera che transitano a quelle latitudini.
Finché un giorno il professor Patrick Michaels, il decano dei climatologi americani, esponente di punta del fronte negazionista, si ricordò di avere nella sua biblioteca il vecchio libro di foto di Ernst Hofer, uno dei rari documenti sulla Groenlandia nord-orientale. E ad un convegno di clima-scettici organizzato dall’Heartland Institute lo citò per smontare quello che era diventato già un argomento simbolo delle battaglie contro l’emergenza climatica: non sappiamo se l’«isola del riscaldamento» sia stata fotografata in Riviera artica, affermò il professore, ma sicuramente quell’isola, con il suo caratteristico profilo a forma di tre dita, è riconoscibile nella mappa che appare nell’introduzione di quel libro di fotografie pubblicato mezzo secolo fa. E dunque già negli anni Cinquanta i ghiacci si erano ritirati, e non ha senso parlare nel Duemila di cambiamento del clima e aumento delle temperature.
D’altronde non era stato lo stesso Hofer, con la scelta del titolo di Riviera artica, a suggerire ai lettori che le temperature non erano così rigide come si sarebbe potuto pensare?
«Predisponendomi alla spedizione in Groenlandia, feci quel che si usa fare per qualunque spedizione nell’Artide; mi munii cioè di abiti caldi e biancheria di lana», scrive il fotografo nel libro. «Non mi sarei mai sognato di trovarmi, nell’Artide, in piena “Riviera”, ma proprio questo m’accadde un giorno dell’anno 1949, quando sbarcai in Groenlandia orientale».
Dunque l’«isola del riscaldamento» era visibile già nel 1957, e così come si scioglie, la calotta polare può rapidamente riformarsi?
No, non poteva essere. Denis Schmitt non ci stava a farsi portar via la scoperta di Uunartoq Qeqertaq: dopo tutto non capita tutti i giorni di incappare in un’isola non segnata sulle carte.
da “Groenlandia. Viaggio intorno all’isola che scompare”, di Sandro Orlando, Laterza, 2021, pagine 192, euro 18