Cambiamento climaticoIn Groenlandia dove prima c’era un ghiacciaio ora c’è un fiordo

Al Festival della Letteratura di Leonessa, in provincia di Rieti, l’alpinista varesino Matteo Della Bordella racconta la sua ultima spedizione nell’isola nordatlantica. Dalla prima pioggia sulla cima più alta, al rispetto per l’ambiente, fino allo sfruttamento del territorio italiano. «Ognuno deve fare la propria parte, servono decisioni concrete»

Foto di Matteo Della Bordella

Groenlandia, ossia la “Terra degli uomini”. Eppure, nel Mythics Cirque, gli uomini non arrivano quasi mai. Era successo solo due volte, finora.

In questa zona inospitale della più grande isola al mondo, collocata tra due biforcazioni nel sistema dei fiordi, le cime sorreggono pareti ripide di oltre mille metri di altezza, con rocce di diversa natura. Arrivarci significa essere mitici. E mitico, Matteo Della Bordella, lo è stato.

Al Festival della Letteratura di Leonessa, in provincia di Rieti, il giovane alpinista ha raccontato la sua ultima spedizione in Groenlandia insieme ai compagni Silvan Schüpbach e Symon Welfringer, iniziata il 20 luglio e terminata lo scorso 25 agosto. Un’impresa che vale 350 chilometri percorsi in kayak tra gli iceberg e due nuove vie alpinistiche aperte: una sulla Siren Tower, di 800 metri, ribattezzata Foru” (dalle discussioni che il trio ha dovuto affrontare durante il viaggio), l’altra sul Paddle Wall, di 440 metri, denominata La cène du renard (“L’ultima cena della volpe”, in onore del formaggio rubato ai tre avventori da quell’unico animale selvatico avvistato nella zona).

A 12 anni, Matteo si arrampicava sulle pareti della sua casa di Varese con papà Fabio, anch’egli alpinista. Un gioco che a quell’età non lo divertiva così tanto. L’amore per freni, moschettoni e discensori sarebbe cresciuto con il tempo. E allora le Alpi (sul Monte Bianco ha aperto diverse vie), il Pakistan, l’India, l’isola di Baffin, in Canada, e la Patagonia sarebbero state solo una questione di maturità.

Nel 2006, entra nel gruppo alpinistico elitario dei Ragni di Lecco, riportandolo in auge e diventandone poi presidente. Ora, a 37 anni, con una laurea in Ingegneria gestionale che non gli ha mai precluso le sue passeggiate in verticale, è tra i migliori alpinisti italiani e tra i più grandi al mondo nell’arrampicata libera.

Sei uno dei pochi scalatori che porta avanti l’idea di un’esplorazione romantica, “by fair means”, ossia “solo con mezzi leali”: cosa significa e perché questa scelta?

Volevo avere un contatto più autentico con la montagna. In che modo potevo ottenerlo? Scalando con addosso lo stretto necessario, ricorrendo alla tecnologia il meno possibile, riportando a valle la gran parte delle strumentazioni utilizzate e non lasciando traccia del mio passaggio. Mi piace l’idea che un alpinista possa arrivare dopo di me, magari tra vent’anni, e trovarsi davanti la parete pulita, così da poter vivere un’avventura pressoché identica alla mia: l’avventura, così, diventa la parete stessa.

Qual è stato il momento più difficile della spedizione?

Ne ricordo due. Il primo, di natura burocratica, quando abbiamo rischiato di tornare subito a casa: siamo rimasti una settimana in Islanda ad aspettare di trovare un posto sull’aereo perché, a causa della pandemia, da un giorno all’altro erano cambiate le regole e il nostro volo non era più valido. Peccato che per la Groenlandia parta un aereo a settimana e fossero tutti pieni. Il secondo, legato all’alpinismo, quando io e i miei compagni ci siamo accorti che la salita era molto impegnativa e non eravamo sicuri di farcela: il mio amico svizzero, Silvan, a furia di pagaiare, si era infiammato il braccio e non riusciva a scalare pareti difficili; Symon, il francese, sebbene fosse molto forte tecnicamente, era anche il più giovane e quello con meno esperienza, e a volte non si sentiva in grado di procedere. Ho dovuto prendere in mano la situazione e ingaggiarmi sui tiri più impegnativi, senza sapere se ce l’avrei fatta o meno.

Eri già stato in Groenlandia nel 2014. In cosa sono state diverse le due spedizioni?

La parte in kayak stavolta è stata più impegnativa perché, nonostante le distanze fossero inferiori, la navigazione non era in un fiordo, ma direttamente esposta sul mare. Le condizioni, in potenza, erano più avverse, ma alla fine abbiamo avuto fortuna. Dal punto di vista della scalata, poi, questa esplorazione è stata più bella, mi ha lasciato qualcosa in più.

In Groenlandia, quest’anno, ha piovuto per la prima volta sulla vetta più alta. Come è stato?

Ero lì, ma a 1500 chilometri da quel punto, quindi non è un’esperienza che ho provato sulla mia pelle. Quelle gocce, però, non sono un caso e non dobbiamo trattarle con superficialità: ci sono avvenimenti che nell’immediato non sembrano avere ripercussioni su di noi, ma che nel lungo periodo possono rivelarsi devastanti. E proprio quegli avvenimenti devono essere la molla per prendere delle decisioni concrete. Quella pioggia, in particolare, ha riacceso i riflettori sul cambiamento climatico.

Credi sia possibile un’inversione di marcia? Se sì, da cosa si dovrebbe partire?

È possibile, ma nel lungo termine. Siamo già partiti, ma ognuno di noi deve fare la sua parte, iniziando dal proprio stile di vita. Anch’io viaggio con l’aereo, producendo quindi anidride carbonica (CO2), ma quando posso, per esempio, mi sposto con i mezzi pubblici. Poi certo, a livello mondiale bisogna considerare che molti Paesi hanno altre priorità rispetto al cambiamento climatico, problemi più immediati.

Ad aprile, ci sarà la seconda edizione del progetto Climb & Clean (“scalare e pulire”), che la prima volta ti ha portato da Trento fino a San Vito Lo Capo, in Sicilia. In cosa consiste?

L’idea alla base è quella di riportare la Natura al suo stato originale, annullando le modifiche apportate dall’uomo. Questo si concretizza nella pulizia dei luoghi d’arrampicata e delle falesie. In primavera, faremo ancora un percorso da nord a sud: vogliamo dimostrare quanto il problema sia trasversale e unire l’Italia sotto un tema comune, quello del rispetto dell’ambiente.

Sei partito per la Groenlandia con alcune carte di vent’anni fa. Una volta lì, ti sei accorto che la morfologia del territorio era diversa da quella indicata. Che significato ha questo cambiamento?

Già recuperare una cartina dettagliata non è stato facile. Avevamo queste mappe danesi degli anni Novanta che in certe zone erano molto accurate, in altre no: durante la nostra seconda scalata, quella che ci ha portato ad aprire la seconda via, ci aspettavamo sei chilometri di ghiacciaio, invece ci siamo trovati davanti un fiordo. La pioggia, questa alterazione sono tutti segnali chiari: il clima sta cambiando, così come l’intero ecosistema, i ghiacci si sciolgono, il livello del mare si alza, succedono eventi catastrofici come le inondazioni.

In montagna hai perso tuo padre e in Patagonia, l’anno scorso, tutta la tua cordata. Ti sei mai ritrovato a odiarla?

No, non avrebbe senso: sei tu che vai da lei, non il contrario. È il nostro approccio a fare la differenza. In certi momenti, questo sì, mi è capitato di odiare quello che faccio. Tante volte mi sono chiesto se fosse davvero questo il mio destino, se veramente fossi pronto ad assumermi certi rischi.

Insegnerai a tuo figlio a scalare?

Dipende da lui, non sarò certo io a costringerlo.

Distinguendo tra nord e sud, quali sono le potenzialità del territorio italiano in termini di frequentazione outdoor (quindi esperienze all’aria aperta, a contatto con la natura)?

Culturalmente, la vera montagna da noi è al nord: quote più alte, sci invernale… Ma esiste altro: sport come l’arrampicata libera e il bouldering [l’attività di scalare pareti poco alte, ricercando lo sforzo massimo, ndr] non li pratichi a quell’altezza bensì a fondovalle, sulle pareti. Ovunque, in Italia, trovi delle rocce e anzi, potrebbe essere anche più bello scalare dove fa caldo. La Sardegna è una Mecca per noi scalatori, la Sicilia l’ho scoperta quest’anno con il progetto Climb & Clean e non è da meno, anche in centro Italia si scala tantissimo. Per esempio, con i Ragni di Lecco, abbiamo realizzato un progetto per valorizzare e chiodare falesie nel Mezzogiorno. Le potenzialità sono immense, ma non so quanto siano riconosciute. Il margine per comunicare di più e meglio il turismo outdoor c’è ed è ampio.

E il turismo di massa invece?

In montagna non mi piace, è molto lontano dal mio stile. Ognuno però fa quel che vuole, a patto che rispetti l’ambiente che lo ospita. E se penso alle spedizioni sugli 8000 metri con code di persone e cumuli di rifiuti alle spalle, la parola che mi viene in mente non è certo rispetto.

Diversi esercenti funiviari continuano, sugli Appennini, a chiedere l’apertura di impianti di risalita. Sono davvero necessari?

Io non ne sento l’esigenza per due motivi: il primo, di natura quasi filosofica, è che l’idea di addomesticare la montagna per le proprie attività non fa parte della mia mentalità; il secondo, più concreto, è che con il cambiamento climatico la quota sciistica si abbassa (e abbasserà) sempre di più. Quindi, non so quanto possa avere senso, in prospettiva, puntare su nuove installazioni.

Ne “La via meno battuta” (Rizzoli Editore), racconti la montagna come una metafora dell’esistenza: cosa ti ha insegnato?

Una lezione su tutte: essere sempre me stesso, non seguire le mode, scalare le pareti che mi piacciono, non le più gettonate. Un approccio che adotto anche lontano da quelle rocce, nella vita di tutti i giorni.

Progetti futuri?

Quest’inverno vorrei tornare in Patagonia. Ci vado ogni anno, lo scorso non ho potuto perché l’Argentina era chiusa a causa della pandemia. È il mio posto preferito.

Foto di Matteo Della Bordella

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