La notte scura di LeonardConsiderare Hallelujah la miglior canzone di Cohen è un grande errore

In un documentario fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, i registi Daniel Geller e Dayana Goldfine raccontano la storia del tormentone scritto dal musicista canadese trattandolo come la sua opera massima. Ma nel repertorio del cantautore ci sono perle autentiche

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Possibile che tra tante belle canzoni che ha scritto, Leonard Cohen debba passare alla leggenda per un pezzo modesto e persino attribuito ad altri? Pubblicata nel 1984 nell’album Various Position, il più sfortunato commercialmente e neppure distribuito in America, Hallelujah è diventata il tormentone dei tormentoni, sembra interpretata in 180 versioni diverse, a cominciare da quella eseguita da John Cale nel 1991, pensata come un omaggio.

È il 1994 quando un giovane cantautore efebico e figlio d’arte la incide nell’album d’esordio Grace che resterà l’unico. Jeff Buckley, morto annegato in circostanze mai chiarite, la fece sua puntando sulla voce angelica e onestamente ridondante. Fu un successo clamoroso al punto che se chiedi in giro otto persone su dieci risponderanno che quella canzone è di Jeff Buckley. Persino Bono la cantò in un festival come omaggio al povero Jeff.

Ignoranza? Dopo questa storia di usucapione, la fortuna del brano non si è purtroppo fermata: eccola nella colonna sonora di Shrek, eccola regalare la vittoria all’X Factor inglese ad Alexandra Burke, per una lettura spiritual oltre i limiti dello strazio.

Si può fare un film girando per quasi due ore attorno a una sola canzone? Nel caso di Hallelujah evidentemente si. In una Mostra del Cinema di Venezia che suona parecchio, con gli omaggi a Ezio Bosso di Giorgio Verdelli, a Ennio Morricone di Giuseppe Tornatore, a Fabrizio De Andrè di Roberta Lena e il docufilm Becoming Led Zeppelin di Bernard MacMahon sugli esordi di Plant, Page etc, si segnala tra gli eventi non fiction fuori concorso Hallelujah: Leonard Cohen, a Journey, a Song diretto da Daniel Geller e Dayana Goldfine, apprezzati documentaristi americani che nei loro lavori sono soliti unire la vita e l’arte.

Leonard Cohen fu un personaggio straordinario da raccontare, partendo proprio dal suo essere atipico. Con il pop e il rock c’entra poco, il termine cantautore comunque non gli dà ragione. Poeta, forse, crooner in tarda età, letterato prestato alla musica leggera, basti leggere i testi con attenzione per accorgersi di citazioni, riferimenti mistici, dove la biografia gioca un ruolo determinante perché senza dubbio il canadese fu musicista vero, autentico, per niente costruito. Sincero durante la depressione o nel lungo silenzio quando si rinchiuse nel monastero buddista vicino a Los Angeles per la meditazione. Rispetto alle rockstar, Cohen arrivò tardi al successo, complice l’atteggiamento da antidivo, un look normale che prediligeva la giacca e cravatta al posto di jeans e giubbotto di pelle. Mai andato di moda perché non ne aveva bisogno, almeno fino ad Hallelujah.

Come lunga preparazione di un brano che a questo punto sa di condanna e che occupa oltre metà delle due ore di film, i registi indagano sulla vita di Leonard attraverso interviste, materiale di repertorio, spezzoni di concerti e passaggi in tv. Una carriera lunga in cui i momenti salienti e più importanti sono l’inizio – in particolare i primi tre album Songs of Leonard Cohen (1967), Songs for a Room (1969), Songs of Love and Death (1970) e la fase finale, quando dovette tornare a scrivere, incidere ed esibirsi dal vivo per assoluto bisogno di denaro, dopo che la sua assistente lo derubò di parecchi milioni (Old Ideas, Popular Problems e You Want It Darker, usciti tra 2012 e 2014 ne rivelano una voce straordinaria, mai sentita così profonda).

Essendo un fan di questo straordinario cantante, fin dalla gioventù, desideravo riascoltarne alcuni capolavori come Suzanne, Dance me to the End of Love, Famous Blue Raincoat, e invece sono tornato dal Lido nel cuore della notte con il ritornello martellante di Hallelujah nel cervello, cercando disperatamente di separare le strofe profonde dal ritornello e dai suoi imbarazzanti coretti, provando a dimenticare la sciagurata versione di Buckley (intanto piace a troppi e quasi tutti non conoscono il vero Cohen, colpevoli a prescindere).

Si può fare un film su una sola canzone? Evidentemente sì, anche se non è un granché, anche se è stata “abusata” e massacrata almeno quanto Nel blu dipinto di blu. Nell’emergenza ti salva Spotify, scarto il brano più ascoltato come faccio quasi sempre (Hallelujah, ça va sans dire) e cerco perle autentiche del vecchio Leonard che renderanno più scura la notte.

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