«Non appena possibile abbiamo ripreso in presenza, compresi i concerti, nel rispetto delle regole. Ma dai vincoli causati dalla pandemia abbiamo colto l‘occasione per ragionare su un modo diverso di fare le cose. Ad esempio l‘open day: sembra impensabile non farlo in presenza, dove si insegna musica, invece quest‘anno l‘abbiamo fatto attraverso i social. È stato complesso, ma anche un nuovo modo di dialogare con chi si approcciava a noi. Non ci crederà, ma il risultato è stato un aumento delle richieste di iscrizione. Lo scorso anno avevamo avuto 1300 domande di nuove ammissioni, l‘anno prima ancora erano state 800. Quest‘anno sono 1400. Per 450/500 posti».
Nelle parole del presidente del conservatorio Giuseppe Verdi, Raffaello Vignali, c‘è tutta la soddisfazione di essere a capo di un‘istituzione della cultura, della civiltà e dello spirito milanese, che ha saputo più di tante altre reagire a un momento grave.
L‘aspetto straordinario è che con due secoli abbondanti di storia alle spalle e una tradizione accademica profonda, il conservatorio riesce a essere protagonista della città e suo rappresentante nel mondo grazie non solo alla tradizione, ma anche alla sua propensione alla modernità.
«Come in ogni università, abbia dovuto fare didattica a distanza. È una cosa quasi impensabile trattando di musica, eppure ci siamo riusciti con grandi risultati, anche approfittando della collaborazione consolidata con il Politecnico per quanto riguarda l‘ingegneria del suono. Abbiamo sperimentato la didattica della pratica degli strumenti persino utilizzando le chat».
«Del resto» – continua Vignali – «sull‘elettronica abbiamo una grande tradizione: il primo centro di produzione Rai è stato il conservatorio. Da noi la musica elettronica si insegna dagli anni 60».
Il Verdi è, per Milano, molto altro che la più alta scuola di musica: ha accompagnato la città nel suo progresso, ha forgiato i più grandi direttori d‘orchestra, da Toscanini a Muti. Ma soprattutto ha fatto e fa cultura. «Siamo il primo produttore di spettacoli a Milano» – ricorda il suo presidente – «e nell‘anno precedente il Covid abbiamo fatto 238 produzioni, al netto delle repliche, tra cui due opere».
Numeri di un apporto alla vita artistica e culturale della città che però pochi conoscono, e che fanno del Verdi un vera “fabbrica della musica” con un difetto evidente di comunicazione. «In effetti nessuno ne parla, ma perché non facciamo pagare il biglietto e non finiamo nei dati Siae», spiega Vignali.
«La produzione per noi è fondamentale per far imparare agli studenti. Si impara stando sul palco, suonando con gli altri. Con una battuta posso dire che Il nostro problema non è fare suonare i ragazzi, ma al limite farli smettere».
Per valorizzare al massimo questo importante capitale civico, è necessario capire se e quanto sia da riequilibrare il rapporto tra la città e il conservatorio, e ragionare sulla sintonia con la comunità. Milano e il conservatorio si vogliono molto bene, ma resta da capire quanto davvero si conoscano, appunto.
«Chi fa il conservatorio, non ha solo Milano come orizzonte: ad esempio c‘è un‘orchestra in Germania dove tutte le prime parti sono italiane. I milanesi sono fieri del loro conservatorio», afferma Vignali – «ma spesso nemmeno sanno dove si trova. Spetta a noi farci più presenti. A volte rischia di essere visto come una torre d‘avorio. Dobbiamo tutti fare uno sforzo di comunicazione. È doveroso, per il conservatorio e per Milano».
Cosa può fare la città per il conservatorio Giuseppe Verdi? «Chiediamo attenzione e di poter fare partnership», dice Vignali. «Di lavorare alla pari su progetti condivisi. Stiamo cercando di creare il conservatorio del terzo millennio, ed è più facile se lavoriamo insieme. Una Milano moderna deve avere un conservatorio moderno. Noi competiamo con i grandi conservatori del mondo, ma abbiamo bisogno di competere, di rafforzare le strutture amministrative, di correre. Milano deve essere città con un’apertura internazionale, con il conservatorio protagonista».
In verità forse non vi sarebbe bisogno di alcuna imperscrutabile alchimia, perché Milano è anche la città della musica, dell’editoria, delle orchestre, dei produttori musicali. Ma le istituzioni cittadine possono giocare un ruolo importante nel chiedere a quelle nazionali più attenzioni.
«Bisogna poter avere le risorse umane, ed è possibile solo se c‘è autonomia. La musica ha una formazione che è necessariamente lunga. È importante potersi scegliere i docenti Ad esempio docenti di violino che vadano dal repertorio antico fino al contemporaneo. Abbiamo potuto scegliere i docenti dei nuovi corsi pop e rock, perché non c‘erano graduatorie. I margini di autonomia che possiamo prenderci, ce li prendiamo. Ci assumiamo la responsabilità, perché se non lo facciamo noi da Milano, chi lo fa?».
Si torna sempre qui: già, se non lo fa Milano, chi lo fa?