Un martedì nero, quello di ieri, con sei morti sul lavoro in 24 ore. All’Humanitas di Milano due tecnici di un’impresa sono stati investiti da un getto di azoto liquido. A Padova e Torino due lavoratori sono precipitati. A Palermo un autotrasportatore è stato schiacciato dal suo tir. A Pisa un agricoltore è rimasto vittima della sua trebbiatrice.
Il giorno prima, lunedì, i sindacati avevano discusso con il presidente del Consiglio Mario Draghi su come arginare il fenomeno. E ora il percorso deve continuare, dice il segretario della Cgil Maurizio Landini alla Stampa. «Serve una norma che fermi le aziende sino a quando non sono ripristinate le norme di sicurezza».
Dopo l’incontro con il premier, Landini parla di «progressi veri. La catena degli incidenti dimostra l’urgenza di agire. Qualità del lavoro, salute e sicurezza devono diventare una priorità nazionale». Ma servono norme decise: «Vanno aumentati i poteri ispettivi e le sanzioni. Con Draghi abbiamo condiviso la necessità che nelle imprese, che non rispettano norme, o che sono soggette a incidenti, le attività possano essere sospese sino a che non si ripristinino le condizioni di sicurezza. Questo vuol anche dire, da subito, effettuare migliaia di nuove assunzioni negli ispettorati del lavoro, nelle Asl e servizi territoriali. Inoltre, è necessario rafforzare il vincolo della formazione per i datori di lavoro. L’incidente di Pieve Emanuele avviene nell’ambito di un appalto e, troppo spesso, le vittime sono lavoratori precari o neoassunti. Non si può restare a guardare».
I sindacati chiedono una patente a punti della sicurezza aziendale. «Il governo si è reso disponibile a lavorarci a partire dal coordinamento delle banche dati», spiega Landini. Abbiamo condiviso più ampi poteri ispettivi e sanzioni per chi non rispetta le regole. Nessuna azienda deve rimanere senza rappresentanti dei lavoratori alla sicurezza. Il nodo centrale è la prevenzione e la formazione. La sicurezza deve essere considerata un investimento, non un costo».
«Senza sicurezza non si può lavorare», spiega Landini. Che ribadisce la richiesta che «il mondo del lavoro sia coinvolto nelle decisioni su riforme e interventi sociali ed economici. Abbiamo cominciato con Salute e Sicurezza. Siamo solo all’inizio». Ora, spiega, «il governo si è impegnato a realizzare un protocollo d’intesa sugli investimenti previsti dal Pnrr: è una cosa importante. Ciascuna amministrazione titolare di investimenti e interventi deve istituire tavoli permanenti sulla destinazione dei fondi impiegati e loro ricadute. Tutte le riforme devono essere oggetto di confronti preventivi a livello nazionale. Così il metodo diventa un sistema di relazioni, nazionali e territoriali, per tutti i sei anni del piano».
Ma ancora nessun “Patto per l’Italia”, precisa Landini. «È un titolo, una proposta che qualcuno ha avanzato. Io mi limito a dire che è cominciato il confronto col governo» dopo la lettera di Cgil, Cisl e Uil. «Su pensioni, fisco, ammortizzatori e concorrenza, sulle scelte di politica industriale, nell’ambito della Nadef e della legge di bilancio. Ora conta il merito». «Noi siamo per gli accordi, li abbiamo sottoscritti, dalla sicurezza alla pubblica amministrazione alla scuola. Il tema è come si fanno le cose, non la cornice politica. Non vogliamo tornare alla pre-pandemia, bensì cambiare il modello sociale, di sviluppo e creare lavoro stabile. Dipende tutto da contenuti e tempi».
Andrà affrontato in primis il blocco dei licenziamenti, che scade il 31 ottobre per tessile, abbigliamento, commercio, servizi e turismo: «Va affrontato, perché la riforma degli ammortizzatori, anche se si fa, non sarà in vigore prima dell’anno prossimo. Non possiamo permetterci che in settori privi di ammortizzatori scattino i tagli occupazionali. E non possiamo accettare che certe aziende prendano decisioni unilaterali, anche antisindacali come nel caso di Gkn che per questo è stata condannata. Si pone la questione delle transizioni e delle delocalizzazioni. Ci aspettiamo che non si perda tempo».
Ottobre, dice Landini, «è il mese della legge di bilancio e delle emergenze da risolvere. Il mese per agire». Ma Draghi non basta, secondo il sindacalista: «L’autorevolezza e la competenza del presidente non hanno bisogno di certificazioni sindacali. È una carta di identità che qualifica il nostro Paese. Dopodiché, è il governo che deve assumersi la responsabilità di decidere. Il punto è quali riforme. Con la pandemia, tanto più, la qualità del lavoro è diventata elemento davvero centrale. Perché molte cose non vanno bene». Qualche esempio: «La ripresa ha generato troppi contratti a termine. Tre quarti delle assunzioni sono limitate nel tempo. Solo l’1 per cento ha durata superiore a un anno. È un problema serio. Il part-time involontario sta aumentando, riguarda quasi tre milioni di persone. Questo amplifica la povertà e la precarietà dei lavoratori. Cinque milioni di persone nei settori privati sono sotto i 10mila euro di reddito annuo».
E sul salario minimo, dice: «Noi vogliamo aumentare i salari e la soluzione consiste nell’ampliare l’efficacia dei contratti collettivi nazionali di lavoro, cancellando le centinaia di intese pirata. Vuol dire dare valore di legge generale ai contratti nazionali e di conseguenza ai minimi salariali e ai diritti collegati, come – ad esempio – maternità, infortunio, ferie. Malattia e maggiorazioni». E a chi dice che così i sindacati difendono solo la loro posizione di mediazione, risponde: «I contratti nazionali tutelano chi lavora e i suoi diritti, non il sindacato. Si tratta di impedire la competizione al ribasso. Soprattutto nel sistema dei sub appalti, nelle finte cooperative. Questo è il nostro contributo alla discussione aperta in Europa».
E se non ci saranno risposte alle richieste dei sindacati, «andremo in piazza». «Non è una minaccia ma un esercizio democratico. È per richiamare tutti alle proprie responsabilità».