Il presidente americano Joe Biden ieri sera è tornato a parlare alla nazione, definendo «un grande successo» l’operazione di evacuazione dall’Afghanistan terminata il 31 agosto. Mentre i ministri degli Interni europei hanno approvato un documento che apre sì all’accoglienza dei rifugiati afghani, ma soltanto su base volontaria. Prevale quindi la linea di chiusura dei Paesi rigoristi come Austria e Danimarca, con la previsione – scrive Politico.eu – di erogare oltre 1 miliardo di euro ai Paesi limitrofi come Pakistan e Iran per ospitare i profughi.
Sei anni dopo la crisi dei rifugiati dalla Siria, questo sistema replicherebbe di fatto quello adottato con la Turchia. E Bruxelles ancora una volta non si dota di un piano comune per far fronte all’ondata di rifugiati dall’Afghanistan che si prospetta nei prossimi mesi.
E all’Europa è rivolto oggi l’appello che arriva dalla senatrice a vita e testimone della Shoah Liliana Segre, nel suo intervento sulle colonne della Stampa. Segre si sofferma sull’immagine della donna afghana che tende il suo bambino verso le braccia di un soldato. Un’immagine che «racconta tutto il dolore e la disperazione di un popolo che vive sulla propria pelle una storia che si ripete: quella delle persecuzioni» e che «mi ha ricordato un fatto simile accaduto durante le deportazioni degli ebrei in Italia», scrive. «La storia di Giuliana Tedeschi, torinese, ormai defunta, donna colta e molto in gamba che al momento dell’arresto nella sua bella casa torinese, mise le sue due figlie nelle mani della domestica, affidandogliele. Lei poi, miracolosamente, si salvò, riuscì a tornare dal campo di sterminio e ritrovò le sue bambine ormai cresciute e che stentavano a riconoscerla. La donna a cui le aveva affidate, le aveva effettivamente salvate. Ma quante di queste donne afghane avranno la fortuna, un giorno, di poter rivedere i loro figli? Questo mi chiedo mentre come tutti assisto alla tragedia di questo popolo e ne sento la disperazione totale».
Una disperazione, continua Segre, «che ho già visto, le porte che si chiudono, gli aerei che partono e ti lasciano a terra, il mondo che si chiude. La paura dell’altro che si amplifica… So cosa significa: anch’io trovai una frontiera chiusa, era quella della Svizzera che rispedì indietro me e mio padre condannandoci al campo di sterminio. Anche allora dicevano “la barca è piena, non si può entrare”. Certo, sono situazioni diverse che non possono essere equiparate. Ma esiste un legame, e non è dato solo dall’umanità offesa. Forse anche di questa tragedia a un certo punto si dirà anche che tutto ciò non è mai accaduto, si negherà quello che oggi a noi appare evidente. Credo che a far paura alla gente siano le carte geografiche. Guardate quella dell’Europa, sembra così piccola per contenere la fuga di centinaia di migliaia di persone dai continenti più poveri e questo ci spaventa. Si capisce, le migrazioni incontrollate spaventano, e io non ho una risposta a tutto ciò, se ce l’avessi sarei un genio. Penso però alle studentesse e alle ragazze afghane, agli intellettuali in fuga, ai traduttori, ai poliziotti, a tutti quelli che hanno creduto nell’Occidente e ora sperano in noi. Sono “elite”, sono il futuro del loro Paese, e non dobbiamo abbandonarli. E per agire al meglio dobbiamo farlo non solo come Italia ma come Europa».
E conclude: «Anche se questa è un’Europa ancora divisa, anzi, “stra-divisa”, ci sono Paesi le cui bandiere sventolano vicine ma che fino a mezzo secolo fa non avrebbero voluto sedersi insieme a nessun tavolo. E però il tempo passa e gli sforzi continui e condivisi in un certo senso pagano. Così sono fiduciosa, ho speranza che prima o poi l’Europa si senta davvero un’unica nazione e sappia trarre dalla propria storia l’insegnamento per altri popoli, affinché tragedie del genere non si debbano ripetere mai più».