Il manico è il magistrato e il difetto sta lì: nel magistrato che si ritiene tutore della società. Ma non si tratta di un ruolo improprio cui quel funzionario si è officiato autonomamente: è la società stessa che impropriamente gliel’ha attribuito.
Quando, dunque, si contesta alla magistratura di aver usurpato un ruolo che a essa non compete, e di aver dunque pervertito la funzione giurisdizionale in una specie di illegittimo governo parallelo, occorre anche riconoscere che queste aberrazioni non avrebbero avuto corso senza il contributo degli stessi destinatari di quell’azione indebita: i cittadini stessi, la società medesima.
Che si sia trattato anche – non sempre – di un’investitura fatta in buona fede, da parte di gente bisognosa e sprovveduta che si affida all’influenza del potere togato come farebbe col sindaco o col signorotto del paese, col parlamentare o con il parroco, insomma con la fungibile autorità grande o piccola cui ci si rivolge per la soluzione di un problema economico, per dare sfogo a un’insoddisfazione professionale, per vedere risarcita con la punizione del privilegio altrui una vita ingiustamente negletta, in definitiva per il comprensibile desiderio di “avere giustizia”, ebbene non toglie, ma conferma, che quella funzione impropria il magistrato abbia preso a esercitare anche a causa del contributo fattivo di chi gli richiedeva di esercitarla.
Il magistrato che cominciò a mettersi “dalla parte della gente”, o dei lavoratori, o delle persone perbene, o delle vittime, anziché stare dove avrebbe dovuto, e cioè puramente e semplicemente dalla parte della legge, fu meno artefice che esecutore di un attentato allo Stato di diritto che è troppo facile imputare a una responsabilità esclusiva. Si pensi al caso esemplare: nel sentimento diffuso, per quanto carburato dalla retorica giudiziaria, Mani Pulite non fu un pessimo episodio inquisitorio e giurisdizionale, ma un buon esperimento purtroppo incompiuto.
Lo si vede bene oggi, con la magistratura generalmente accusata non già d’aver preteso di riordinare la società, la politica, l’economia, ma di essersi dedicata alle beghe interne anziché alla realizzazione effettiva di quella pretesa.
E in questo impazzimento diffuso, dove pare perduta anche una tenue possibilità di resipiscenza, nessuno che, come si dice, abbia voce in capitolo, trova la forza di denunciare che la magistratura è condannabile esattamente, e in primo luogo, per il compito che essa pretende di svolgere, di cui mena vanto e di cui molti la vogliono incaricata: cioè il compito di “fare giustizia” nella società.