Sono diversi gli spunti di interesse nella polemica intervista rilasciata a Milena Gabbanelli, sul Corriere, da Francesco Greco, capo della procura milanese, alla vigilia della pensione, tra poco più di un mese. Non è la prima volta che un magistrato manifesta una verve polemica e si toglie qualche sasso ingoiato a fatica soltanto al momento della pensione, quasi la quiescenza liberasse dal voto obbligato di solidarietà, condivisione e silenzio verso i peccati della “corporazione” (così lo stesso Greco definisce la categoria di cui è stato esponente di spicco).
Ciò che tuttavia rende interessante lo sfogo del procuratore ambrosiano – forse l’ultimo depositario dell’eredità del mitico Francesco Saverio Borrelli e dei cavalieri della Tavola rotonda di Mani Pulite perché la prossima guida sarà probabilmente un papa straniero – è l’amara consapevolezza della fine di un’era irripetibile: quella dell’eccezionalismo antropologico della procura di Corso di Porta Vittoria, iniziato quasi trent’anni fa con l’arresto di Mario Chiesa.
Parliamo di quel particolare fenomeno di venerazione e fede privilegiata verso l’azione salvifica delle procure che ha contrassegnato per molto tempo il pensiero di settori politici e culturali del Paese. Greco demolisce, se mai ce ne fosse bisogno, il mito dell’inflessibile giustiziere Piercamillo Davigo i cui calembour sulla giustizia sono stati eletti a verdetti oracolari da Marco Travaglio e Giovanni Floris, ma che oggi è indagato a Brescia con l’accusa di violazione del segreto di ufficio riguardo ai verbali di Piero Amara che a lui avrebbe consegnato il pm milanese Storari, anch’egli sotto inchiesta ma prosciolto dagli addebiti disciplinari dal Csm, che ha escluso l’incompatibilità con l’ufficio milanese.
La stragrande maggioranza dei colleghi ha espresso solidarietà a Storari, mettendo Greco, per sua stessa ammissione, di fronte alla dura disillusione di un diffuso malcontento verso i suoi metodi di gestione. Greco addita l’ex “dottor sottile” del pool Mani Pulite come il burattinaio dietro l’infernale sabba dei verbali di Piero Amara sulla Loggia Ungheria, lamentando come «il consigliere del Csm può diffamare, così come è successo, senza che ci sia la possibilità di una replica dell’interessato. La consegna clandestina infatti ha consentito di costruire una narrazione totalmente priva di riscontri, poi crollata come un castello di sabbia».
Greco si spinge fino a lambire la figura dell’ex membro del Csm, fondatore della corrente Autonomia e Indipendenza, nonché teorico della “rivoluzione del calzino” con il sospetto di un possibile ruolo addirittura nell’invio ai giornali dello scottante materiale giacché, come precisa, «la lettera anonima (agli atti delle Procure di Roma e Brescia) che accompagnava la seconda consegna dei verbali al Fatto (…) non lasciava dubbi sulla loro provenienza, riportando nel dettaglio tutti i colloqui avuti da Davigo con soggetti istituzionali e con diversi colleghi, nonché l’indicazione precisa che provenivano dalla Procura di Milano… Inoltre, trattandosi di stampe di file word, potevano essere usciti solo dai nostri uffici».
Sono accuse gravi che pongono interrogativi sui rapporti interni di quello che l’iconografia popolare delle gazzette giustizialiste ha sempre dipinto come un gruppo di amici compatto: Greco e Davigo erano fianco a fianco quando Tonino Di Pietro lesse il famoso proclama alla nazione con cui si intimava al governo Berlusconi di ritirare una legge che vietava la custodia in carcere per dei semplici indagati (a rileggerla oggi, una legge sacrosanta, il minimo sindacale di uno Stato di diritto). Il tragico fu che quell’invito fu accolto dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro che poi si lamentò l’anno dopo, a sua volta, del «tintinnar di manette». Non tutti lo capirono, ma in quell’immagine e in quell’atto sull’orlo della sedizione, c’erano le radici del populismo che sono esplose un ventennio dopo con i Cinquestelle.
Greco ritiene che il malcontento nei suoi confronti sia il frutto di questa manovra e soprattutto di ciò che definisce «il cambiamento culturale della magistratura, sempre più corporativa e autoreferenziale, e che trova il suo contraltare nelle circolari del Csm». La causa degli ostacoli frapposti, a suo dire, deriverebbe dal fatto che la Procura milanese «ha sempre rappresentato l’indipendenza e la libertà dei magistrati» e «rappresenta da decenni un’anomalia, per la capacità di svolgere un ruolo cruciale e sempre innovativo sia sul fronte della legalità politica ed economica nazionale e internazionale, che nei fenomeni criminali che accompagnano il costume sociale». Non manca il fosco presagio finale e l’invocazione all’Europa: «Sarà il caso di riflettere sulle conseguenze anche internazionali, non a caso il terzo dipartimento è stato indicato dal governo all’Ocse come l’unica best practice italiana nel contrasto alla corruzione internazionale».
C’è del vero in ciò che dice Greco, anche se dimostra di non riuscire a sottrarsi al solito schema dei poteri forti e della rivoluzione giudiziaria tradita. Indubbiamente, la sua conduzione ha segnato l’ultimo atto della saga di Mani Pulite arenatasi sulle secche del processo Eni/ Nigeria, su cui non manca di depositare qualche stoccata. Trenta anni fa un’iniziativa come quella di sentire Piero Amara in aula su presunte manovre di condizionamento del collegio giudicante non gradito avrebbe causato l’immediata dimissione dei giudici, magari con qualche dichiarazione di fede di stampo sovietico “in nome del superiore interesse” e “per non dare adito a speculazioni”.
Vi era un’epoca in cui la procura di Milano oltre a far cadere governi vigilava sugli altri uffici giudiziari italiani: in una mattinata di marzo 1996, in un solo colpo furono decapitati i vertici degli uffici giudiziari romani nel silenzio attonito di tutti. Un silenzio che non cessò neanche quando risultò che contro i corrotti erano state spacciate come intercettazioni delle annotazioni scarabocchiate su un tovagliolo di un baretto vicino il tribunale di Roma.
Invece il presidente Tremolada e i suoi colleghi hanno tirato diritto e non solo: è insorto l’intero ufficio del Tribunale di Milano. È stato il Termidoro di Mani pulite: non ci sarà alcun erede di quella stagione a raccogliere lo scettro. Ma la colpa è solo dell’autoconsunzione di un mito e di una pratica politica sotto forma di azione penale.
A parte i soliti house organ, qualcuno ha motivo di dolersene? Vediamo: in un’epoca in cui il pericolo peggiore per la tenuta dello Stato democratico è proprio il populismo sgorgato dalla vena di Mani Pulite, poi degenerato ulteriormente, si ha bisogno di una magistratura meno incline al disegno politico e più attenta alle regole processuali e al rispetto dei diritti individuali.
Occorrerà tempo e maggiore professionalità, il capovolgimento degli stessi metodi di reclutamento e di progressione di carriera. Occorrerà una magistratura meno incline al politicamente corretto e più attenta a scrostare dal pregiudizio ideologico le proprie determinazioni.