Si è ripetuto fino alla noia che la pandemia non ha rappresentato un cambiamento epocale, ma un’accelerazione di trend già presenti. Così è stato per l’adozione delle tecnologie digitali nel lavoro e nei consumi, o per l’impatto sull’occupazione perché la crisi ha colpito chi era già in sul fondo della piramide alimentare lavorativa: i precari e i giovani.
Lo stesso vale per l’immigrazione che già da anni sta rallentando, nonostante le proteste di qualche partito sull’invasione dei rifugiati. La cruda realtà dei numeri dimostra che le centinaia di migliaia di arrivi negli anni ‘90 e 2000 sono ormai finiti. Nel 2020 c’è stato il primo significativo calo del numero di stranieri residenti Italia: sono diminuiti di 26mila unità (da 5 milioni e 39mila a 5 milioni e 13mila), come confermano Istat e Idos, Centro di Studi e Ricerche specializzato nel fenomeno migratorio.
Dati Istat
Sembrerebbe un’oscillazione di poco conto, e certamente si potrebbe obiettare il fatto che proprio la pandemia ha costituito un freno ai nuovi arrivi. E che anche nel 2015 e nel 2016 ufficialmente vi erano stati decrementi di 4mila e di 12mila, anche se allora vi era stato uno straordinario numero di acquisizioni di cittadinanza, che erano arrivate a livelli record, 178mila e 201.500 circa, mai più ripetutisi.
Non è però accaduto lo stesso nel 2020: le acquisizioni di cittadinanza sono state 131.803, di pochissimo superiori all’anno precedente, e non giustificano da sole, come nel 2015 e 2016, la minore presenza di immigrati, che si sono ridotti in un anno dello 0,5%.
Già prima della pandemia l’Italia rientrava tra gli Stati europei in cui l’incremento degli stranieri era stato inferiore, se prendiamo a riferimento i 12 mesi intercorsi tra il 1° gennaio 2019 e il 1° gennaio 2020. Non solo nei confronti di quei luoghi che di immigrazione ne avevano sempre vista poca – e dove solo poche migliaia di arrivi in più rappresentano un aumento notevole, come nell’Est Europa – ma anche a paragone di paesi come Francia, Germania, Spagna.
Dal 2014 in poi il calo di arrivi si è registrato proprio nelle aree in cui di solito si concentrano maggiormente gli immigrati, in particolare le province del Nord Est e le aree più industriali, Vicenza, Treviso, Brescia, dove la riduzione del numero di stranieri negli ultimi sette anni è stata addirittura superiore al 10%. Nel Sud e nelle Isole, almeno fino al 2019, si era verificata invece una crescita vivace e piuttosto costante del numeri di immigrati, vista anche la più piccola base di partenza, ma da un paio d’anno lo stop è visibile anche qui.
Nel milanese il dato è diverso dalla media nazionale: gli arrivi di cittadini stranieri sono aumentati negli ultimi anni grazie ai servizi avanzati e la crescita economica. Questo perché il capoluogo lombardo segue dinamiche economiche diverse persino rispetto a quelle del resto del Nord, ed è più simile ai trend internazionali.
A disertare il nostro paese sono stati recentemente soprattutto gli europei non comunitari, come gli albanesi, gli ucraini, i russi, e gli africani dell’Ovest. Mentre i mediorientali, ovvero coloro che provengono dall’Asia occidentale, sono l’unico macro-gruppo la cui presenza è cresciuta a ritmo sostenuto.
La dinamica migratoria non dipende tanto dalla crescita naturale della popolazione di origine non italiana, quanto dalla situazione geopolitica, dai blocchi agli sbarchi, dai corridoi che si aprono e che si chiudono, e naturalmente dall’emergenza pandemica.
Negli ultimi anni anche il numero dei nuovi nati tra gli immigrati in Italia è crollato. dal 2014 al 2018 si è registrato un calo del 15,5% nal Nord Est, del 15,3% al Nord Ovest, del 13,9% al Centro, con il solo Mezzogiorno a fare eccezione.
Nonostante le nascite rimangano più dei decessi in valore assoluto, il vantaggio delle prime sui secondi – il saldo naturale positivo, come dicono i demografi – si è ridotto e lo ha fatto più velocemente di quello degli italiani, che è già da tempo in negativo.
Solo qualche teorico improvvisato della sostituzione etnica poteva pensare che non vi sarebbe stato un adattamento della popolazione straniera a quella locale, ma viceversa. Da ogni punto di vista. Compreso anche quello demografico. Il problema è che il declino della natalità di origine straniera avvenga proprio nelle aree più ricche e produttive e che sia maggiore, oltre che superiore a quella che interessa gli italiani.
La presenza di stranieri, quasi sempre poco istruiti, sicuramente meno di quelli che approdavano negli altri paesi europei, ha consentito a molti di scegliere la via più facile, quella del mantenimento di un basso costo del lavoro invece che quella della crescita della produttività, soprattutto nei settori maturi.
Era difficile pensare che una famiglia senegalese o marocchina, di fronte alle difficoltà economiche, ai salari bassi e precari e al modello culturale davanti a cui si trovava, continuasse a generare lo stesso numero di figli dei connazionali in patria.
Se a questo si aggiunge la minore attrattività per chi viene dall’estero, ora ci troviamo di fronte a una situazione diversa da quella che forse solo 10 anni fa immaginavamo: gli immigrati potranno rallentarla un po’, ma di fatto parteciperanno a pieno titolo al declino demografico italiano. Le cui ragioni risiedono in mille fattori tra i quali non vi è l’immigrazione, che anzi ne è a sua volta vittima.
E allora dovremo abituarci a fare quello che già in altri paesi sanno essere necessario, e che però per alcuni sembra una bestemmia. Cercare di attirare immigrati giovani, istruiti o da istruire e integrare, per poter assieme a loro impedire la ripresa di quell’altro declino, economico, che ci interessa da decenni.