Nelle prime diciannove pagine di “Un amore chiamato politica” (edito da Piemme, esce oggi), Di Maio si guarda la punta delle scarpe quattro volte, e quando non guarda le sue guarda quelle del padre, la cui polverosità egli ci dettaglia non ho capito se considerandola possente metafora della classe lavoratrice o critica politica a D’Alema.
Lo leggevo mentre con un occhio guardavo un televisore dentro al quale si diceva che sui colori degli abiti di Hillary Clinton venivano fatte osservazioni e su quelli di Barack Obama no; e che i commenti alle caratteristiche fisiche di Berlusconi erano un ripiego utilizzato da Striscia la notizia, che non poteva permettersi di fare critiche più pregnanti al padrone della baracca.
Faticavo a concentrarmi sulla lettura mentre mi chiedevo come fosse possibile che in tv ci fossero donne così impreparate da non sapere che l’unica cosa su cui si è polemizzato, in otto anni di presidenza Obama, è stato il colore d’un abito del presidente; o che «psiconano» non è una definizione ideata da Antonio Ricci. Volevo sapere dell’amore di Di Maio, e invece ero costretta a chiedermi se notare com’erano pettinate e truccate e abbigliate le parlanti fosse un modo sufficientemente elegante di dirottare l’attenzione dalle stronzate che pensavano e dicevano.
Di Maio, d’altra parte, che sa che giocare al femminismo ormai è copertura per qualunque incompetenza e impresentabilità, comincia il suo tomo dicendo che l’ha scritto sollecitato da Virginia, la sua compagna, e ringraziandola «per l’amore che mi rivolge ogni giorno». Non sono sicura che l’amore si rivolga, ma che cos’è un verbo quando hai tutte quelle punte di scarpe da guardare.
È molto grato, Di Maio. Anche a un prof di liceo. «Si chiamava Antonio Cassese. In realtà si chiama ancora così». Ringraziamo Luigi Di Maio per averci informato che il prof non ha cambiato sesso, e ringraziamo anche l’editor di Piemme per non aver eliminato nessuno dei dettagli che ti fanno pensare che un libro autopubblicato conterrebbe meno pecionate (non avevo mai visto un refuso al primo paragrafo, e dire che ho letto persino un sacco di Harmony, mica solo Tolstoj).
Ma torniamo al professore che non ha cambiato nome, e al modo sobrio in cui l’ex allievo lo rievoca: «Quando alle superiori hai il privilegio di trovarti davanti a una mente pura e limpida che si pone sempre in modo costruttivo di fronte alle tue incertezze, ai tuoi sbalzi d’umore, ai tuoi sogni e aspirazioni, quando davanti a te hai la fortuna di avere una persona che la politica l’ha odorata, toccata, schiaffeggiata, allontanata e riacciuffata» – chiudo prima della reggente, e lo faccio per due ragioni. La prima è un omaggio a Di Maio come prosatore: l’anacoluto è la sua vocazione, e il fatto che stavolta non avesse dimenticato la principale è un’eccezione che non voglio citare per non falsare la statistica. La seconda è che quei cinque participi mi hanno fatto tornare in mente una meraviglia.
«Con i suoi occhi cisposi, i denti cariati, l’alito fetido, l’espressione idiota, la voce odiosa, il salumiere aspettava che gli pagassi la dozzina di uova. Aveva la classica faccia da porco, ma da porco vecchio, malato, guasto dentro. Il suo negozio era disgustoso. Fuori cadeva, lentissima, una pioggia lercia. Vomitai: una, due, tre, quattro volte». Trent’anni fa, Michele Serra pubblicò un librino intitolato “44 falsi”. Era una raccolta di apocrifi, ognuno scritto divertendosi a ricalcare lo stile di qualcuno. Il più favolosissimo era quello di Oriana Fallaci.
«Il salumiere mi fissò con la sua espressione ebete, laida, immonda, turpe, sconcia, triviale, ottusa, empia, cretina, ignorante, cafona, arrogante, offensiva. Io gli fissai le scarpe, veramente bruttissime, e gli allungai il suo schifoso, fottuto, atroce, insolente, blasfemo mezzo dollaro. Vomitai: una, due, tre, quattro volte». Oriana Fallaci che vomita aggettivando le uova a mezze dozzine (di aggettivi) è l’evidente modello della prosa di Di Maio, e non importa che non fosse la Fallaci ma Serra: viviamo nell’epoca in cui i politici sono parodia sui social, è giusto lo siano anche nei libri. È giusto che le scarpe, siano le proprie o quelle del salumiere che vende le uova alla Fallaci, siano la fissazione delle memorie di Di Maio.
Impegnato com’è a guardarsi la punta delle scarpe, Di Maio riesce a sbagliare mira anche sul tiro più facile del mondo, cioè il capitolo in cui potrebbe facilmente averla vinta («asfaltare», si direbbe nella lingua dell’elettorato contemporaneo) su quelli così fessi da ridurre il dibattito a «sì ma tu vendevi bibite allo stadio». Invece di rispondere «e allora?», o «critica molto di sinistra, complimenti», Di Maio dice: che certo, non ci sarebbe niente di male, ma lui non ha mai venduto bibite e allo stadio ha sempre pagato il biglietto; che gli hanno dato anche dell’omosessuale, e sempre non ci sarebbe niente di male, ma lui non lo è (manca solo «ho molti amici gay, sono persone sensibilissime»); che «la cultura del bibitaro» (è il titolo del capitolo: io ci avrei titolato il libro, ma nell’editoria si dice che la parola «amore» faccia aumentare di non so quanto le vendite d’un titolo, mentre non ci sono analoghi studi su «cultura») l’ha inventata Silvio Berlusconi (per il quale penso sempre più spesso al verso «assenza, più acuta presenza», che potrebbe essere esergo delle memorie di uno qualunque di questi che scelgono le frasi a orecchio: in esergo a Di Maio c’è «Mira alla luna: anche se sbagli, atterrerai tra le stelle», che Google attribuisce a un oratore motivazionale che l’editore deve aver considerato troppo poco popolare per citarlo; potevano mettere come fonte «calendario di Frate Indovino», sarebbe stato credibile e il pubblico di Di Maio avrebbe annuito forte).
Ma, se il bibitaro è il modo in cui Silvio Berlusconi rappresenta «il tipico disprezzo di una generazione inchiodata alla poltrona, che non ha mai fatto niente per insegnare e far crescere le nuove generazioni, anzi ha cercato in ogni modo di affossarle», come mai io questa fissazione per i trascorsi bibitari di Di Maio l’ho sentita sempre e solo da gente sua coetanea o poco più? E, soprattutto: te lo vedi Berlusconi che frigna perché lo affossano rievocando i suoi trascorsi da crooner sulle navi da crociera?
Siamo sempre lì: alla distanza tra Andreotti che chiede l’originale della vignetta che gli dà del malvivente, e la sardina che frigna di quanto una vignetta l’abbia ferito come persona. A Di Maio che non ha il guizzo di proporsi come ospite vestito da bibitaro a un varietà (anche se, porello, non è che i palinsesti televisivi sian pieni di trasmissioni di satira in cui si possa inscenare la gag. Amici di Propaganda, fatelo passare sullo sfondo d’un collegamento a offrire bevande non abbastanza fredde. O anche tra le poltrone del pubblico in studio).
Una cosa sola mi ha molto sorpresa, una volta schivate le punte delle scarpe e i refusi che arredano le memorie del ministro degli Esteri. Non c’è un rigo su quella settimana – l’ultima dell’agosto 2020 – trascorsa dall’opinione pubblica a prenderlo per il culo perché troppo abbronzato.
Una donna, al posto suo, ci avrebbe fatto almeno un paio di capitoli di vittimismo (Di Maio preferisce ricordarci che quando Salvini fece cadere il governo lui lavorò anche a Ferragosto: questa gente ci rinfaccerà finché vive quell’agosto di ferie non fatte, sono proprio arcitaliani). Confido che quel vittimismo mancato diventi materiale per Luca e Paolo, che in Quelli che il calcio hanno due nuovi personaggi, Michel e Murgio, che pubblicano tomi quali “Abbassa la tavoletta e altre frasi che non vogliamo mai più sentire”.
È ora di finirla di tacere le vessazioni inflitte a Di Maio quando lo accusavamo di blackface perché aveva preso troppo sole, quando era in tutti i meme che circolavano, quando era tutt’un paragonarlo a Carlo Conti. È ora di drammatizzare come merita quel momento storico, così magari se ne accorgono anche le opinioniste dei talk show, quelle convinte che la società dell’immagine sia abitata da sole donne.