Statisti di ieri, politici di oggiAl Quirinale servirebbe un nuovo Luigi Einaudi (se solo ci fosse)

«Monarchico, governò da re. E fu il migliore dei presidenti della Repubblica italiana». Mentre ricorre il sessantesimo anniversario della scomparsa di uno dei più grandi padri costituenti, in Italia si fatica a trovare un nome decente per il prossimo capo dello Stato

LaPresse

Il 30 ottobre, i 60 anni dalla morte di Luigi Einaudi arrivano proprio mentre sono già in pieno corso le grandi manovre per trovare il prossimo presidente della Repubblica.

E tra Mario Draghi che passerebbe subito, ma serve troppo a Palazzo Chigi, Silvio Berlusconi e Dario Franceschini che sono troppo schierati, Pierferdinando Casini che al contrario ha l’immagine di avere girato troppo, Marta Cartabia troppo tecnica, la riconferma di Sergio Mattarella che lo vede troppo anziano, diventa irresistibile la tentazione. Datecelo un altro presidente come Einaudi: se solo ci fosse…

«Monarchico, governò da re. E fu il migliore dei presidenti della Repubblica italiana». È passato più tempo da quando nel 1975 Giovanni Mosca mise questa epigrafe a un busto di Luigi Einaudi nella sua Storia d’Italia in 200 vignette, di quanto non ne fosse passato allora dal settennio dello stesso Einaudi. 

Al Quirinale era allora Giovanni Leone: nella stessa pubblicazione definito «Il marito della Regina Vittoria», per la forte immagine della moglie. Gli sarebbero seguiti altri Presidenti dalla personalità spiccata come il populista e popolarissimo Sandro Pertini; il picconatore Francesco Cossiga; quello che «non ci stava» Oscar Luigi Scalfaro; il restauratore di inni, tricolori e sfilate del 2 giugno Carlo Azeglio Ciampi; il post-comunista Giorgio Napolitano; l’eroe anti-mafia e baluardo anti-populista Sergio Mattarella.

Eppure, nel sentire collettivo resta sempre Einaudi il migliore. Sì: al Pertini partigiano dedicarono un fumetto Andrea Pazienza e una canzone Toto Cutugno. Sì: Cossiga con un piccone in mano divenne cartone animato nel video di un brano da discoteca costruito attorno alle sue esternazioni. 

Ma solo di Einaudi, tra tutti i presidenti italiani, capita di vedere i suoi famosi aforismi su quadretti appesi nei locali di elettrauto o nelle botteghe di barbiere, malgrado la sua autoironica convinzione di saper fare solo «prediche inutili»

A partire da quello famoso della dedica che fece all’impresa dei Fratelli Guerrino il Dogliani, il 15 settembre 1960, vero inno della piccola impresa: «migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli». 

«È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di guadagno. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno».

«Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie e investono tutti i loro capitali per ritirare spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente ottenere con altri impieghi». 

Era un Einaudi popolare che, come diceva Indro Montanelli, «conosceva a memoria le cifre dell’economia italiana, come i re che lo precedettero conoscevano a memoria i nomi e i motti dei reggimenti», pur essendo anche un grande economista liberale, docente alla Bocconi e a Torino e direttore di riviste scientifiche come Riforma Sociale o Rivista di Storia Economica.

Governatore della Banca d’Italia tra 1945 e 1948, salvatore della lira e iniziatore della Ricostruzione. E padre costituente, fautore pionieristico dell’anti-trust e campione del pareggio di bilancio in epoche di keynesianesimo forsennato. E appassionato viticultore, che quando ricevette il padre dei sette fratelli Cervi uccisi dai fascisti si mise a parlare con lui di tecniche di legatura e potatura. 

E raffinato collezionista di testi rari, che al centro della biblioteca della casa di San Giacomo aveva fatto costruire uno speciale studio-scala, apposta per poter raggiungere più facilmente tutti e quattro i livelli dove erano conservati i 50.000 libri e 20.000 riviste. E antifascista, che votò al Senato contro le leggi razziali e dopo il 25 luglio iniziò un articolo con un famoso «heri dicebamus» che metteva tutto il ventennio tra parentesi. 

E pensatore federalista, che già a 23 anni scriveva di Stati Uniti d’Europa. E giornalista di Stampa, Corriere della Sera ed Economist: costretto a siglare i suoi pezzi contro voglia, nella convinzione che «il grande giornalismo è tutto anonimo, veda il Times, veda i grandi giornali svizzeri e tedeschi». 

Il tutto, pur venendo da solide radici popolari. Suo nipote Roberto Einaudi nel 2012 scrisse un bel libro appunto su queste «Radici montane», in cui partiva dal 1799 e da Lorenzo Einaudi, che a quattro anni a San Damiano Macra, un paesino in Val Maira a oltre 700 metri di altezza, vede i soldati francesi portare le idee della Rivoluzione. 

Un po’ ricostruita sui documenti, un po’ immaginata in base agli studi di Nuto Revelli sul mondo contadino piemontese, la storia mostra Lorenzo che da piccolo accompagna la famiglia al pascolo del bestiame a oltre 2000 metri, poi da giovane combatte per Napoleone durante i Cento Giorni, dopo ancora ad avere il minimo di istruzione per andare a fare il copista per il notaio Emanuele Massimo, rivale paesano dell’altro notaio Giovanni Giolitti.

Aprirà poi un negozio, e con l’appoggio di entrambi i notai sarà designato da re Carlo Alberto sindaco. Il nipote di Giovanni Giolitti e il figlio di Lorenzo che ormai si firma Einaudi hanno gli stessi nomi di nonno e padre, ma per distinguerli li chiamano Gioanin e Lore. Compagni di scuola, un giorno hanno uno scherzoso bisticcio. 

Gioanin dice che vuole andarsene dalla Val Maira per guidare l’Italia unita sotto i Savoia; Lore gli risponde che non diventerà mai bravo come lui, ma avrà un figlio che guiderà la Repubblica Italiana che prenderà il posto della monarchia. Lorenzo il vecchio muore nel 1850, ma prima di chiudere gli occhi vede in sogno il futuro. 

Davvero Giovanni «Gioanin» Giolitti diventerà Presidente del Consiglio del Regno d’Italia. E davvero Luigi Einaudi, il figlio che Lore avrà nel 1874, diventerà Presidente della Repubblica Italiana. 

Non una, ma ben tre fondazioni a suo nome sono state necessarie per gestire lo sterminato lascito intellettuale di luigi Einaudi. C’è infatti la Fondazione Luigi Einaudi di Torino, attorno alla grande biblioteca e alla sua cattedra universitaria, per gli studi storici, economici e istituzionali. 

C’è la Fondazione Luigi Einaudi per gli studi di politica ed economia di Roma, nata dall’allora Partito liberale italiano e volta allo sviluppo della cultura liberale. C’è l’Istituto Luigi Einaudi, erede di un Ente per gli studi monetari, bancari e finanziari Luigi Einaudi pure di Roma, promosso dalla Banca d’Italia e rivolto più specificamente alla formazione degli economisti.

Ma c’è pure il Centro di Ricerca e Documentazione «Luigi Einaudi» di Torino, «libera associazione di imprenditori e intellettuali» e promotore fra l’altro della famosa «Biblioteca della Libertà».

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