Dopo le elezioniL’effetto Draghi sul Paese e il tramonto del bipopulismo

Il voto amministrativo premia i partiti più seri e i candidati presentabili mentre punisce le forze di un centrodestra non moderato e troppo ambiguo, anche se l’astensione pesa su ogni considerazione. L’Italia, anche grazie al presidente del Consiglio, ha cambiato pelle e vuole offerte politiche al passo con i tempi, lontane dalle coalizioni artificiose da Prima Repubblica

di Aaron Burden, da Unsplash

Con i ballottaggi nelle grandi città si chiude il ciclo delle elezioni amministrative. Come è sempre avvenuto, quando sono in ballo le grandi città assume anche un valore politico nazionale.

Metà degli italiani aventi diritto non ha votato

Cosa emerge dunque da queste elezioni. Innanzitutto l’ulteriore caduta della partecipazione politica omogenea sul territorio nazionale che si colloca al 50% circa degli aventi diritto, a Napoli come a Torino, a Bologna come a Trieste.

Come sempre accade, questo fenomeno segnala uno scarto tra domanda e offerta politica. Chi non vota, a parte uno zoccolo duro di disinteressati, lo fa perché non si riconosce nei partiti e nelle formule politiche che si presentano al voto. In queste amministrative il primo dato che emerge omogeneamente è che l’offerta politica del centrodestra fosse estremamente scadente, a dimostrazione dell’incapacità della destra sovranista di mettere in campo classe dirigente locale in grado di contendere al centrosinistra il governo delle città.

Questo fenomeno ha favorito il disimpegno massiccio dei suoi elettori che si sono rifugiati nel non voto, senza nemmeno tornare nella vecchia casa liberalconservatrice di FI, che perde consensi come la Lega e FdI, perché è stata giudicata negativa persino la formula del centrodestra a trazione sovranista e criptofascista.

Parallelamente la platea elettorale anticasta e antipolitica che aveva sostenuto il populismo grillino – il cosiddetto populismo di sinistra – non si è più mobilitata a sostegno di un movimento che nel triennio di governo è riuscito nella mirabile impresa di perdere gran parte del suo appeal antisistema, senza guadagnare quasi nulla sul versante della trasformazione in forza pienamente integrata nel sistema politico: ha perso la barbarie senza trarre nessun vantaggio dalla “romanizzazione”. E da questo punto di vista l’ “effetto Conte” che doveva compiere il miracolo di tenere insieme il vecchio e il nuovo è stato elettoralmente nullo.

La sconfitta populista
Nell’intero fronte populista – quello sovranista e quello anticasta – si è verificato dunque un vero e proprio terremoto, con il M5s praticamente scomparso dall’Italia settentrionale e in fortissimo rinculo anche nel Mezzogiorno e soprattutto nella sua roccaforte napoletana, dove scende sotto il 10% dopo i fasti di oltre il 50% alle politiche del 2018; con una Lega che si disintegra nel Sud e si riduce a forza marginale anche nel Nord e FdI che manifesta per la prima volta una battuta d’arresto nella sua corsa elettorale che sembrava inarrestabile.

Conte, Meloni e Salvini sono usciti sconfitti dal voto amministrativo perché oltra alla scarsa qualità dei propri candidati, fondamentale in una elezione dove la personalità è un elemento dirimente per orientare le scelte degli elettori, sono arrivati con una offerta politica confusa. Innanzitutto l’unità del centrodestra sbandierata in campagna elettorale è apparsa una finzione sempre più inconsistente, disintegrata dall’effetto Draghi su tutto il quadro politico nazionale.

L’effetto Draghi a destra
Draghi infatti ha avuto il sostegno pieno di FI, che rappresenta il Ppe in Italia, l’opposizione orbaniana di FdI e con l’adesione contraddittoria della Lega, divisa e a metà del guado rispetto a una chiara collocazione nello scenario europeo: il polo di centrodestra dunque è apparsa una costruzione artificiosa ed evanescente che non ha nulla ha che vedere con la Casa delle libertà di berlusconiana memoria e strutturalmente inadatta a governare il centro come le periferie; l’appoggio ambiguo al movimento novax e nogreenpass ha ulteriormente indebolito la proposta politica nei confronti di un paese unito invece nella scelta di vaccinarsi e di combattere il virus con la scienza, come testimoniano i dati sulla distribuzione del vaccino; infine questa volta “l’anti-antifascismo” e gli ammiccamenti neofascisti si sono rivelati una carta perdente (persino Berlusconi se ne è accorto), perché la “guerra delle memorie” ha perso il mordente che aveva negli anni ’90 del secolo scorso e l’assalto alla Cgil è senza scusanti anche per un elettore di destra ma moderato.

Dalle urne esce dunque in centrodestra che perde attrattività elettorale perché si configura come una costruzione politica priva delle carte in regola per governare il Paese. Questo non significa che sia finito, ma certamente in vista delle elezioni del ’23 deve intraprendere un processo di profonda revisione, quasi di rifondazione, ma con l’invecchiamento irreversibile di Berlusconi, il declino evidente di Salvini e il minoritarismo della Meloni, non si intravede un capo politico in grado di portarla a termine efficacemente.

Ma la sconfitta del M5S è ancor più grave. Nonostante le piroette di Conte figlie dalla sua inconsistenza politica, emerge che il ciclo storico del populismo antipolitico, che ha elevato l’ignoranza a categoria dello spirito, è giunto al termine. Sembra ancora vivo perché é il referente politico della sinistra dalemiana ancora fortissima dentro il Pd, che lo usa per mantenere il controllo del partito, e perché è tenuto in vita dal sistema dei media che ancora in parte controlla, frutto della vecchia egemonia del governo giallo-verde nella Rai e ne La 7; ma è ormai ovunque marginale e irrilevante.

È una storia senza futuro, perché nel mondo postpandemico quel populismo non è più in sintonia con le aspirazioni profonde di chi, pur critico della politica politicante, vuole ricominciare a vivere e ed è consapevole che “uno vale uno”, “decrescita felice” e giustizialismo illiberale sono ferri vecchi fallimentari.

Anche qui gioca il suo ruolo l’effetto Draghi, perché con il nuovo inquilino di palazzo Chigi il M5s si è spento anche come forza di governo e le sue vocazioni antagonistiche sono state collocate nel museo degli orrori, ormai interamente svuotate di effetti politico concreti: come Di Maio con la feluca, anche Di Battista con il passamontagna non conta più nulla e solo Travaglio lo evoca per vendere qualche copia in più del suo giornale.

I dilemmi della sinistra
Ma il collasso del M5s riguarda molto anche la sinistra e il Pd in particolare.

Innanzitutto il successo elettorale non deve obnubilare lo sguardo, perché al di là dei successi garantiti dal sistema elettorale maggioritario, e dalla maggior qualità dei suoi candidati, quell’elettorato in fuga dal centrodestra e dal M5S non si è travasato se non in piccolissima parte nel campo del centrosinistra.

Basta guardare la consistenza elettorale del Pd per rendersi conto di questo fenomeno: il suo bacino elettorale resta infatti di circa il 20%, molto vicino alla consistenza elettorale del 2018.

Nonostante lo sforzo di qualche giornalista “organico” e di qualche seguace di Boccia e Provenzano, che si sono arrampicati sui vetri fino a dire che il Pd era tornato nelle periferie, in quattro anni il cammino percorso è davvero modesto: anche a Bologna il Pd perde voti e nel sud, Napoli in testa, resta ultraminoritario. Si conferma dunque la tendenza che i voti persi dai cinquestelle non si trasferiscono nel Pd, ma restano sospesi nel non voto o vanno a destra come testimoniano le scelte della Raggi e della Appendino. Nonostante gli sforzi di Bettini e compagnia di negare l’evidenza, il mondo del populismo non appartiene alla sinistra e quindi nel momento delle scelte autentiche quell’elettorato evapora nell’astensione o si colloca a destra dove effettivamente abita la cultura populista.

Questi fenomeni mettono in evidenza che anche l’offerta politica dei vincitori presenta molte pecche e molti nodi irrisolti dovuti al fatto che il Pd nonostante il cambio di segreteria si è presentato alla elezioni con il modello politico che si era raccolto intorno al progetto del governo Conte III, di una coalizione di sinistra demopopulista chiusa al riformismo liberal socialista.

Bologna è stata il laboratorio più coerente dell’unita organica tra Pd, Leu e M5S senza nessuna apertura a IV e a Azione. Ma non è andata oltre un caso locale. Infatti a Torino e Milano il Pd si e mosso in una direzione diversa, direi quasi opposta, come partito federatore della sinistra di matrice postcomunista e di quella che per brevità chiamiamo riformista; a Roma è stato in mezzo al guado per mesi salvo poi rompere con il M5s e aprire nel ballottaggio alla Lista di Calenda, che raccoglieva tutte le forze rifomiste. Napoli e stata ancora un’altra esperienza perche l’unità indissolubile del Pd e dei 5s ha generato solo 1/3 dei voti presi da Manfredi, mentre il resto è dipeso da una somma di liste riformiste e moderate del tutto estranee a quel progetto politico.

In ogni caso l’idea dominante era il “campo largo” contro la destra, che ha vinto, ma non ha convinto gli elettori ad andare a votare: ha solamente e provvisoriamente cementato il suo spazio politico meglio del centrodestra senza sciogliere nessuno dei nodi per proiettare il campo largo come un progetto politico di scala nazionale in grado di trasformare il “campo largo” in una coalizione vincente che si candida a governare l’Italia: il nuovo Ulivo da Fratoianni a Conte, passando per Renzi e Calenda evocato da Letta nella sua campagna elettorale non solo non riesce a toccare le scelte elettorali di chi si era collocato nel centrodestra, perché piu simile alla trista Unione che all’Ulivo di Prodi e Veltroni, ma soprattutto è rispedito al mittente dalle forze riformiste che hanno confermato la loro pregiudiziale antipopulista.

Effetto Draghi a sinistra

Ma è proprio il sostegno al governo Draghi a cambiare le carte in tavola, non solo perché nelle tensioni della campagna elettorale Letta è stato costretto ad abbandonate ogni ambiguità a proposito del rapporti tra Pd è il governo in carica, ma soprattutto perché intorno a Draghi si sta definendo una nuova maggioranza politica che non necessariamente richiede la sua presenza diretta nella lotta politica, ma definisce il quadro delle alleanze e il posizionamento internazionale di un futuro “campo democratico e repubblicano” che potrebbe scompaginare la irrealistica struttura bipolare o meglio bipopulista del sistema politico italiano lasciataci dalle elezioni del 2018: un campo europeista, laico, riformista, ambientalista, con al centro l’idea di sostenere una nuova stagione di sviluppo del Paese dopo una lunga stagnazione, capace di rimescolare le carte delle due coalizioni esistenti perché raccoglie da destra e da sinistra le forze riformatrici oggi costrette a vivere dentro coalizioni artificiose come lo erano nei partiti della I Repubblica.

Draghi obbliga la sinistra a ripensarsi radicalmente e come foglie al vento cadono i suoi miti antichi e recenti – la suggestione populista, il primato dell’unita della sinistra, le mai spente vocazioni anticapitaliste, le eredità stataliste – che ne strutturano ancora una identità regressiva e permanentemente “in ritardo” rispetto all’evoluzione del mondo.

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