Sono le elezioni della crisi del bipopulismo tra declino del M5s e crisi del centrodestra. Per i grillini è un massacro ovunque, simboleggiato dal triste uscita di scena di Virginia Raggi: a Roma mai un sindaco uscente aveva mancato l’obiettivo minimo del ballottaggio. Per il centrodestra è stata una giornata disastrosa: si conferma in Calabria e Trieste, come ampiamente previsto, ma crolla con il suo Luca Bernardo a Milano, va malaccio Enrico Michetti a Roma, Paolo Damilano è dietro a Torino.
Il fatto politico più rilevante di queste amministrative riguarda quindi una destra fino a solo pochi mesi fa data da tutti, ma proprio tutti, stra-vincente alle prossime elezioni politiche, tanto è vero che a sinistra fin qui ci si è ingegnati a come contenere le perdite o a quali contrappesi ricorrere per ridurre il danno (a partire dalla elezione di Mario Draghi al Quirinale) dando per scontato che il derby vero sarebbe stato tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Cosa è successo? Perché questo improvvisa parabola dei sovranisti? Forse perché è venuta avanti un’alternativa credibile? Certo che no. La crisi della destra è interamente spiegabile con ragioni interne alla coalizione.
A parte le novità internazionali (la caduta di Donald Trump, innanzi tutto), al primo posto c’è la perdita di senso dell’offerta politica rappresentata dalla Lega, l’offuscamento del salvinismo come nuovo capitolo della biografia della Nazione, lo svuotamento delle parole d’ordine anti-immigrati e pro-armi, il senso di frustrazione davanti all’azione di governo di Mario Draghi, infine il prospettarsi di un’alternativa interna (Giancarlo Giorgetti) e in misura minore l’emergere di una imprevista questione morale (il caso Luca Morisi).
La crisi della destra è soprattutto la crisi della Lega e del suo capo, un uomo che adesso se le deve aspettare tutte, persino l’evenienza di un vacillare della sua leadership, un uomo che soprattutto avrà difficoltà a trovare nuove strade.
È una crisi che potrebbe trascinare nel gorgo anche una Giorgia Meloni fino a pochissimo fa in grande spolvero. Perché a Roma nelle mitiche periferie di cui Fratelli d’Italia pareva in grado di intercettare il disagio la gente è restata a casa? Risposta facile: perché Enrico Michetti è un candidato debole, se ci fosse stata Giorgia. Ma Giorgia non c’era – errore blu? – e la probabilissima sconfitta dell’avvocato radiofonico le cadrà in testa. Fratelli d’Italia non sfonda, anzi. Può essere che l’effetto-novità sia già sfiorito. Ma più in generale forse paga anche la Meloni, pur meno logora di Salvini, la crisi generale del sovranismo, il grande sconfitto fin dalle Europee del 2019, quando le destre europee cominciarono a rinculare.
Quelle ricette, quegli slogan, non incantano più come una volta. È una situazione che apre scenari imprevedibili a partire dal malessere di una parte di Forza Italia – si sa che Berlusconi è fuori di sé per come è stata gestita tutta la vicenda. Questo appare il fatto nuovo della situazione italiana: e una destra in grande difficoltà è senz’altro una buona notizia per Mario Draghi, che solo da quella parte ha (aveva) da temere qualcosa. E anche il big match del Quirinale risentirà di questa debolezza “contrattuale” dei due partiti sovranisti.
Sul Movimento 5 stelle c’è poco da dire: sta affondando. Giuseppe Conte lo tiene ancora a galla ma è chiaro che con l’uscita di scena di Virginia Raggi si chiude anche simbolicamente un ciclo: cosa ne scaturirà non è chiaro, nella migliore delle ipotesi il M5s contiano diventerà una specie di appendice del Partito democratico. Così muore anche l’altro corno del bipopulismo, spentosi come una candela dopo l’uscita dell’avvocato del popolo da palazzo Chigi, un passaggio che, oggi si vede meglio, è stato davvero cruciale per la storia italiana.
Per quanto riguarda il centrosinistra, non ha vinto: ha stravinto. Stante la concomitante crisi degli avversari, e azzeccando le candidature, era prevedibile che andasse così, tanto che l’avevamo scritto ieri. Bravo Enrico Letta, e fortunato. «Una vittoria che rafforza il governo Draghi», ha detto il segretario del Pd, comprensibilmente assai soddisfatto. Il voto testimonia che «la destra è battibile», e lui ha posizionato il Pd all’incrocio della crisi della destra e del M5s, questo va a suo merito. Ora che il neodeputato Letta si è molto rafforzato nel suo partito avrà anche più agio per tentare qualche operazione politica, a partire dal Quirinale e oltre.
Infine, dal voto vengono segnali incoraggianti per quel centro riformista che stenta ancora a vedere la luce come forza unitaria e organizzata. Carlo Calenda ha lottato contro due schieramenti a Roma collaudatissimi (Pd e destra) e la sindaca uscente e ha ottenuto una percentuale vicina al 20% ed è dunque assolutamente determinante per la vittoria di Roberto Gualtieri al secondo turno (il che dovrebbe consigliare ai dirigenti del Pd di cambiare tono), mentre la vittoria a valanga di Beppe Sala conferma Milano come la capitale del riformismo. Ma ciò detto è anche evidente che se si vuole costruire un super-centro non c’è molto altro da fare che rimboccarsi le maniche. Incarnando l’agenda Draghi e preparandosi a fornire un’offerta politica nuova.