Pioniere incompresoGiovanni Battista Grassi è il “nobel negato” che svelò il segreto della malaria

Il medico italiano (1854-1925, lombardo ma vissuto a Roma) dimostrò che la trasmissione dell’infezione avveniva dalla zanzara anofele all’uomo, sventando la teoria dell’aria malsana come veicolo di contagio

LaPresse

Uno dei classici sempreverdi delle pagine culturali è il pezzo sui Nobel negati. Ogni anno in questa stagione qualcuno deve farsene carico, spesso su richiesta del direttore, soprattutto quando, come succede quasi sempre, non c’è nessun italiano tra i premiati (quest’anno, con Giorgio Parisi, è stato una felice eccezione). E allora parte la carrellata dei trombati illustri: Joyce, Tolstoj, Borges, Virginia Woolf, Philip Roth… E la geremiade sui nostri grandi ingiustamente esclusi, da Ungaretti a Moravia.

Maledetti svedesi! In compenso l’hanno dato a Dario Fo, che non era degno! Ricordo un tale che negli anni Ottanta ne aveva fatto una missione, e ai primi refoli d’autunno martellava tutti i capiredattori della cultura d’Italia per patrocinare la causa del poeta Mario Luzi, a suo dire boicottato da una satanica consorteria, il cui grande burattinaio sarebbe stato chissà perché un noto ambasciatore e storico. Che poi, anche ammesso che il complotto fosse reale, non era chiaro come riuscisse a condizionare l’Accademia di Stoccolma. Sta di fatto che il povero Luzi passò a miglior vita senza vedere l’agognato (e forse meritato) alloro. 

Confesso di non avere mai capito questa ossessione per il Nobel della letteratura, assegnato il più delle volte sulla base di un discutibile manuale Cencelli geopolitico, o peggio dei capricci di qualche traduttore scandinavo. Ben più serie sono le esclusioni immotivate in campo scientifico, dove dovrebbe regnare un rigoroso criterio meritocratico. Uno dei casi più assurdi e scandalosi è quello di Giovanni Battista Grassi. Mai sentito? Infatti nessuno ne parla. Eppure il suo nome dovrebbe tornare alla ribalta in questi tempi di pandemia, tanto più dopo che l’Oms ha dato il via libera al primo vaccino contro la malaria. 

Perché della lotta alla malaria Grassi è stato uno dei pionieri, forse il più grande di tutti. Fu il medico italiano (1854-1925, lombardo di nascita, ma vissuto a Roma) a dimostrare la trasmissione dell’infezione dalla zanzara anofele all’uomo, mandando definitivamente al macero la vecchia teoria dei “miasmi”, dell’aria malsana come veicolo di contagio. Altri prima di lui, tra cui Robert Koch, il padre tedesco della batteriologia, avevano sospettato che l’insetto fosse in qualche modo coinvolto. Ma non erano mai arrivati a risultati probanti. Il francese Alphonse Laveran, nel 1880, aveva scoperto i plasmodi, microorganismi responsabili della “febbre palustre”, senza però individuare la particolare specie di zanzara che fa da vettore. 

Nell’ottobre del 1898 Grassi e i suoi colleghi compiono il passo decisivo: catturano un bel po’ di anofeli nel delta del Tevere e gli offrono in pasto un paziente affetto da plasmodio falciforme, quello che provoca la forma più grave di malaria. Poi mettono le zanzare così infettate nella camera di un volontario sano. Dieci giorni dopo, l’uomo sviluppa i sintomi della malattia. È la prova regina che Grassi stava cercando. Seguono, l’anno successivo, esperimenti su larga scala a Pian Capaccio, in Campania, una delle peggiori zone malariche d’Italia. Che confermano definitivamente la nuova teoria. I plasmodi della malaria non circolano liberamente nell’ambiente, in nessuno stadio della loro esistenza: vivono in un circuito chiuso tra il corpo umano e quello dell’insetto, tra l’ospite intermedio e quello finale. Una scoperta da Nobel, non vi pare? 

E invece no. Negli stessi anni (tra il 1895 e il ’97) in India, senza comunicare in nessun modo con Grassi, un medico britannico, Ronald Ross, fa anche lui ricerche sulla malaria. Si mette a dissezionare le zanzare del genere Culex, e trova il plasmodio nel loro stomaco. Ma è il parassita della malaria “aviaria”, quella che infetta gli uccelli. Ed è proprio lavorando sugli uccelli che Ross riesce a provare la trasmissione della malattia attraverso la puntura degli insetti. E arriva alla conclusione che, per analogia, la stessa cosa debba succedere con gli umani. Un’intuizione fondamentale, che però senza gli esperimenti di Grassi sarebbe rimasta allo stadio di ipotesi.

Ma quando il comitato Nobel discuterà la questione, nel 1902, darà il premio a Ross e non allo zoologo romano. La Britannica, alla voce Ross, non menziona nemmeno il suo concorrente sconfitto. Alla voce malaria, invece, si limita a ricordare la controversia che seguì il Nobel come “una delle dispute più al vetriolo della scienza moderna”. Il povero Grassi si ritirò dalla scena, deluso e amareggiato, proprio quando il parlamento italiano approvava la campagna antimalarica basata in gran parte sul suo lavoro, e mentre la scuola romana di malariologia da lui fondata era ormai diventata la più prestigiosa d’Europa.  

Gli hanno dedicato qualche ospedale e un po’ di vie qua e là, a Fiumicino, a Ostia, nei luoghi della malaria. A Milano si chiama così, guarda caso, la strada che passa davanti al Sacco. Per il resto, l’oblio è assoluto. Uno come Grassi meriterebbe come minimo un biopic o una miniserie. Ma in tv e sui social si preferisce parlare, anzi blaterare di Nobel convertiti al verbo novax come Luc Montagnier o di un Giulio Tarro che si autocandida all’insaputa degli accademici di Svezia. E i patridioti sovranisti si scaldano per l’italianità dei cetrioli di mare invece che per il genio, italianissimo e misconosciuto, della lotta alla malaria. 

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