Dopo lo shock del Covid-19 «è diverso il clima in economia», dice Romano Prodi al Corriere. «Vi sono nuovi elementi che favoriscono il cambiamento: gli errori fatti dieci anni fa, la Brexit e soprattutto la nuova consapevolezza tedesca che non vi può essere sviluppo della Germania senza che il Paese resti inserito in Europa. Proprio come per noi. Queste realtà hanno cambiato l’atmosfera. Quindi noi oggi abbiamo più spazio per la ripresa».
Con il rimbalzo più forte del previsto, «probabilmente arriveremo allo stesso livello di prima della pandemia insieme agli altri Paesi e non resteremo indietro come nell’altra crisi. Questa crisi sta durando molto meno. Aggiungo poi la situazione particolare italiana di un governo e di un presidente del Consiglio che hanno un’autorevolezza e riscuotono una fiducia superiori rispetto ai tempi passati».
Eppure, è qui che secondo Prodi la politica italiana sta sbagliando. «Draghi non può fare tutto da solo», dice l’ex premier. «I partiti scaricano, almeno temporaneamente, i problemi su di lui. Ma lui si può interessare solo di quelli più grandi. Invece loro li scaricano tutti su di lui. E se si fa riferimento a Draghi per qualsiasi cosa, dalle pensioni a cose micro, ai singoli problemi aziendali… Questo appartiene all’attuale fase storica. Ma è un’illusione che possano essere le singole persone a risolvere tutto. Credo molto al ruolo tecnico delle strutture ministeriali, che si è molto affievolito. Vanno rinforzate. Le nostre élite giovanili devono tornare a lavorare anche nei ministeri».
E sulla gestione del Recovery dal 2023, anche i partiti devono lavorare. Anche per loro, secondo Prodi, «esiste un problema di squadra: di qualità e quantità della squadra. Non mi sembra che vi stiano dedicando molta attenzione. Naturalmente alla testa di tutto c’è sempre un politico: chi prende le decisioni e tiene gli equilibri fra i diversi partiti è sempre tale. Se poi ha anche competenze tecniche, molto meglio».
Certo, nella ripresa globale l’Europa sconta un ritardo tecnologico. Prodi lo sa. «Il ritardo non è nuovo», dice. «Ciò che lo rende più visibile è che siamo assenti in alcune delle catene del valore vitali. Chiamiamolo l’effetto-mascherine. Improvvisamente, ci troviamo spiazzati e questo mette a nudo la crisi industriale europea. Ma sarebbe un errore darci per sconfitti. Anche nell’aeronautica l’Europa era perdente e poi ha fatto Airbus. Dobbiamo realizzare qualcosa di simile nei semiconduttori e in qualche anno ce la faremmo. Il problema è che oggi non c’è una politica industriale europea. Le grandi decisioni sono in mano alle imprese oligopolistiche mondiali. Noi – noi italiani – non abbiamo nessuno che sieda con forza a quei tavoli e gli europei non si mettono d’accordo».
Intel, ad esempio, sta negoziando per investire nella produzione di microchip in Francia, Germania e Italia. «Investe in Europa, come fa anche Tesla, perché oggi le imprese globali devono essere presenti con tutta la loro supply chain in ciascuna delle grandi aree economiche», spiega Prodi. «Ma Intel e Tesla dove vanno? In Germania per gli stabilimenti principali, entrambe. La parte dell’investimento Intel in Italia mi sembra piuttosto secondaria. Eppure avremmo tante zone con la stessa produttività della Germania e salari che sono la metà. Però abbiamo un’immagine di Paese ancora problematica e nessuno a questi tavoli che ricordi le opportunità che ci sono da noi».
Secondo Prodi, in concomitanza con la realizzazione del Recovery Plan, «ci vuole un punto di riferimento che prema sui grandi gruppi globali e abbia una squadra di tecnici che presenti loro i punti di forza italiani. Ma il ministero dello Sviluppo economico non ha ancora costruito una struttura ad hoc: è tutto rivolto alla gestione delle crisi industriali. Cosa importante, ma diversa».
Il problema principale dell’Italia, secondo Prodi, «non sono le competenze, che ci sono, ma la quantità delle competenze. Non superiamo i mille laureati all’anno in matematica. Fa ridere. La prima cosa da fare è un enorme sforzo, come sta iniziando a fare per le scuole tecniche il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, ma molto più ampio. Non avrei esitazioni a sostenere anche finanziariamente i ragazzi che scelgono le facoltà scientifiche, o a rivoluzionare l’insegnamento della matematica nelle scuole, perché così oggi non stiamo preparando il futuro. Dobbiamo puntare non solo sulla qualità ma anche sulla quantità delle competenze».
Le medie imprese, dice, «sono la nostra miniera d’oro. Se riusciamo ad avere una bilancia commerciale attiva e quote di mercato mondiale in crescita, è grazie a loro. Vanno fatte crescere. In fondo gli incentivi agli investimenti tecnologici introdotti da Carlo Calenda, quando era ministro dello Sviluppo, hanno funzionato. Ma, ripeto, manca un grande sforzo corale per l’istruzione. Per anni ho chiesto alla Rai che facesse un serial sui nostri ragazzi delle scuole tecniche che hanno avuto successo. Ma dico io, li hanno fatti per i preti, per i poliziotti, per i forestali. Per chi ha fatto la nostra industria no?».