La mattina – ieri – in cui stava per essere assegnato il Nobel per la Letteratura, un’amica e io ci siamo scritte «chissà a che scrittore mai sentito andrà». Lei mi ha mandato le previsioni degli sportelli scommesse, c’erano una decina di nomi che conoscessi e molti ignoti il cui suono mi faceva capire l’inquantismo – questo lo premierebbero in quanto asiatico, questa in quanto donna – ma non del tutto: «in quanto donna che oltretutto scrive di stupro» vale più di «in quanto donna che però scrive di soufflé», e per sapere di cosa scrivono devi conoscerli.
Due ore dopo, la stessa amica mi ha mandato il lancio della notizia sul New York Times. Diceva che l’assente dai pronostici Abdulrazak Gurnah (uno dei nomi più refusabili nella storia della letteratura: nulla mette alla prova la nostra inclusività occidentale come l’ortografia) era stato premiato per essere andato a fondo di temi quali «gli effetti del colonialismo e il destino dei profughi». Ho citato il solito Nanni Moretti (quello che nell’89, alla conferenza stampa veneziana per Palombella rossa, disse «col tema importante si vince sempre, ricattando il pubblico»), e siamo passate ad altro, nell’impossibilità di continuare a parlare di Gurnah: non si trova nessun suo libro in italiano, e neppure il marito della mia amica, nostro terzomondista di riferimento, l’aveva mai letto.
Tra un messaggio sul Nobel e l’altro, avevo passato la mattina a riflettere sulle memorie di Ilda Boccassini, in libreria da ieri (La stanza numero 30, Feltrinelli). Non sulla rivelazione che fosse innamorata di Falcone, su cui si sono concentrati i giornali di ieri, ma sul dettaglio di quella volta che lui le chiese di fare il bagno in mare insieme, e lei esitò perché si era appena fatta la messinpiega.
Coi temi importanti prendi il Nobel e altri premi, sì; ma è coi dettagli che fanno annuire i lettori fino a slogarsi il collo – e fanno borbottare «uh, sì, anch’io» – che diventi popolare. È sempre stato così, e fino a un certo punto è stata specialità degli inglesi. Nick Hornby ha fatto sentire compreso il maschio imbecille quarantenne che «uh, sì, anch’io ho coi dischi il rapporto ossessivo che avevo a quindici anni». Helen Fielding ha fatto sentire capite le femmine imbecilli trentenni che «uh, sì, anch’io penso solo alla dieta e ai fidanzati invece di procurarmi uno straccio di carriera».
Poi sono arrivati i social, e prima ancora la copertina di Time con lo specchio che ci diceva che la persona dell’anno eravamo noi, e con essi l’abbassamento della soglia della fatica accettabile: non ce ne fregava più niente d’un protagonista che non ci somigliasse. Non avevamo più nessuna intenzione di fare uno sforzo, di sospendere l’incredulità, di usare i libri come porte sull’ignoto invece che come specchi delle nostre minuscole vite. Sì, magari compreremo il Nobel che parla di profughi, perché certi prodotti stanno sui tavoli dei nostri salotti per dire agli ospiti che siamo persone colte e perbene, ma ci interessa solo chi parla di quant’è faticoso avere un figlio, di come nostra nonna tirava la sfoglia, di quanto è inaccettabile che gli altri ridano delle nostre fragilità.
«Nel nostro paese puoi sparare a un negro, e ucciderlo, ma sarà meglio che tu non ferisca i sentimenti d’una persona omosessuale». La frase arriva al decimo minuto di The Closer, il nuovo monologo di Dave Chappelle su Netflix. Chappelle promette che questo sarà il suo ultimo monologo, e lo usa per ribaltare contro i suscettibili una suscettibilità imprevista: il suicidio d’una trans che era stata bersagliata dai social per essere inaccettabilmente amica di Chappelle (il quale è considerato transfobico dai suscettibili: come sapete, “transfobico” è una parola-cadavere che viene usata sia per chi è violento con le persone trans sia per chi di mestiere fa battute e quindi le fa su tutto, anche sulle persone transessuali).
Ma, prima di tutto, Chappelle ci tiene a ristabilire le priorità: quand’è che essere stati schiavi ha iniziato a essere considerato meno valevole, nel punteggio delle fragilità, che venire irrisi?
Se state per obiettare con l’obiezione più scema di tutte, cioè che Chappelle non è trans e quindi non può parlarne, sappiate che Chappelle aveva già risposto implicitamente anni fa. Raccontando una volta in cui la rete televisiva su cui andava in onda l’aveva convocato nell’ufficio legale e multato per aver detto «ricchione». Ma come mai invece «negro» posso dirlo, aveva chiesto lui con simulata ingenuità. Lei non può usare parole volgari per dire gay perché non è gay, gli aveva spiegato la gentile signora con uso di multa. Ma non sono neanche negro, aveva risposto lui.
Se state cercando su Google Images perché avete il dubbio d’aver capito male, posso risparmiarvi la fatica: Dave Chappelle ha la pelle nera. Ma – spiegare le battute: come mi sono ridotta – «negro» («nigga») vale se sei povero, mica se sei Barack Obama o Magic Johnson. Tanto per aumentare il numero di indicibilità su cui osa far battute, in The Closer, tra molte battute sulla pandemia, Chappelle dice anche che farsi il vaccino Johnson & Johnson, quello che fanno ai senzatetto perché una sola dose risolve i problemi di reperibilità d’un senza fissa dimora, «è la cosa più da negro che abbia mai fatto».
Se anche vale l’identitarismo, bisogna vedere in che identità ti riconosci: Chappelle è prima nero o milionario? La Boccassini è prima una giudice o una riccia? La vita da appartenente alla seconda categoria è faticosissima, ve l’assicuro: se sei temprata a stirarti i capelli da tutta la vita, essere minacciata di morte dagli inquisiti è una passeggiata. Ed è mai stato raccontato un dettaglio di quell’attentato che resti impresso e sappia di vero quanto le righe in cui la Boccassini dice che mentre Falcone saltava in aria lei era a farsi la tinta? E quanta solidità ci vuole, quanta certezza che nessuno possa liquidarti come superficiale e frivola e insomma femmina inaffidabile, per dire che hai esitato a trasferirti da Milano alla Sicilia perché avresti dovuto cambiare parrucchiera? Le lettrici annuiscono grate: se ci bada lei, allora posso assolvermi nel mio rapporto morboso col parrucchiere anch’io.
Raccontando le piccole cose si racconta la vita, diceva Nora Ephron, e forse era una furbizia – magari raccontiamo le piccole cose perché di raccontare quelle macroscopiche non siamo capaci – ma di sicuro non era una falsità. Di sicuro le identità sono fatte di minuzie, e non delle macrocategorie che vuole imporci il discorso pubblico in questo decennio.
Se uno scrittore londinese originario della Tanzania avesse scritto, chessò, della difficoltà d’essere l’unico nero del quartiere a non saper giocare a basket, avrebbe mai preso il Nobel, senza il tema importante ma solo in-quanto-nero? Magari no. Però in quel caso nei suoi libri sarebbe facilissimo identificarsi, sarebbe tradotto ovunque, e venderebbe, da ben prima del Nobel, quanto le Ginzburg o i Piccolo che ci rendono facile e sorridente la lettura, e ci fanno annuire: ah, come mi ha capita, come mi riconosco, come sa dirlo bene.