Scansando le marmellateLa moda stupida di definire “geni” le donne che scrivono libri normali

Certo, c’è Yasmina Reza. Ma, rispetto agli uomini, per le scrittrici è molto più facile essere considerate parte del canone letterario. E non solo perché quando si decide che ci sono quote da riempire si tira dentro chiunque

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Nell’ultimo film che diresse George Cukor ci sono i due modi in cui si può fare la scrittrice. È un film di quarant’anni fa, quando non solo erano solo due i modi, ma solo due erano persino i generi sessuali, quindi abbiate pazienza: sto per fare delle notazioni antiquate.

In quel film lì Jacqueline Bisset è, delle due amiche, l’intellettuale. Quella che scrive un libro ben recensito e benissimo premiato, e poi le viene il blocco e si tormenta. Candice Bergen è invece quella che fa le cose che ci si aspettano (stiamo parlando del 1981, per carità: oggi no, oggi non esistono aspettative, giammai) dalle donne: sposarsi, figliare.

Candice Bergen si è trasferita in California e, quando Jacqueline Bisset la va a trovare, le dice la cosa che più terrorizza la gente di talento. Le dice: sai, anch’io ho scritto un libro. Mentre la bambina faceva i compiti. Bisset lo legge sprezzante, sprezzante constata che venderà moltissimo, e sprezzante le fa una piazzata: hai scritto un libro scansando le marmellate dal tavolo di cucina.

La loro amicizia non sarà mai più la stessa, naturalmente. Perché Bisset continuerà a essere l’intellettuale d’insuccesso, e Bergen infilerà un bestseller dietro l’altro. Neanche il fatto che il marito di Bergen la detesti e brami Bisset basterà a pareggiare i conti, oltre a essere l’unico dettaglio davvero inverosimile della storia. Bisset non è il genere di donna per cui un uomo voglia lasciare la moglie (nell’81, per carità: oggi mica gli esseri umani son più fatti a forma di cliché, scherziamo); Bisset scrive come un uomo, beve come un uomo, scopa come un uomo. O meglio: questo direi se ne parlassi nell’81, oggi chi ha voglia d’essere accusata di dire cose patriarcali e eteronormative.

Nella seconda metà degli anni Novanta, Yasmina Reza era già Yasmina Reza. Non aveva ancora scritto quello che sarebbe stato il più gran romanzo del secolo successivo, “Felici i felici”; ma aveva già pubblicato “Arte”, la sua più magnifica pièce teatrale (“Arte” e “Felici i felici” sono pubblicati da Adelphi, che un po’ alla volta sta ripubblicando anche i vecchi Reza dispersi tra vari editori). Decise di pubblicare degli appunti, dei frammenti, delle piccole cose femminili, di quelle che una s’annota scansando le marmellate. Dal padre che gareggiava con lei a chi eseguisse meglio una certa sonata (“Hammerklavier”, che diede il titolo alla raccolta, in italiano tradotta da Archinto con “Al di sopra delle cose”), alla volta che perde il quaderno della figlia.

In interviste d’epoca, Yasmina Reza, che evidentemente non era ancora Yasmina Reza, quasi si giustificava: diceva che erano appunti privati, ma poi gli amici l’avevano convinta a pubblicarli, dicendole che tutti hanno un padre, una figlia, una persona malata, che tutti ci si potevano ritrovare. Fa impressione rileggere quelle interviste oggi, che non ci sembra profana l’idea che in un libro ci si debba innanzitutto ritrovare; e fa impressione rileggere “Al di sopra delle cose”, così robetta che sembra scritto scansando le marmellate.

Il grande indicibile in tutti i dibattiti sulle donne escluse dal canone letterario, sulle scrittrici sottovalutate, sui lettori che per principio non leggono femmine, il grande indicibile è che per le donne è molto più facile. È molto più facile essere considerate parte del canone, e non solo perché quando si decide che ci sono quote da riempire si tira dentro un po’ chiunque; è molto più facile perché, se sei una donna, l’asticella superata la quale sei considerata un genio è bassissima.

Se Nora Ephron non avesse avuto gameti femminili, a nessuno sarebbe venuto in mente di considerarla un genio. Sarebbe stata un tizio che scriveva delle piccole cose di tutti i giorni: ce ne sono tantissimi – che scrivono delle loro giornate da papà, che scansano le marmellate dal tavolo – e a nessuno viene in mente di considerarli geni. Se sei una donna, «sembra uno status di Facebook» è un complimento invece che un limite.

Ci pensavo leggendo “Anne-Marie la Beltà”, che è la Reza di più di vent’anni dopo, la Reza che scrive un monologo femminile come avrebbe potuto scriverlo Cocteau (ancella del patriarcato che non sei altro: per lodare il monologo scritto da una donna, lo paragoni a quello scritto da un uomo), la Reza che mai si giustificherebbe della pubblicazione anche perché ha capito che scrivere è un mestiere come un altro: a Marco Missiroli, che l’ha intervistata per La Lettura, ha detto che è bizzarro che tutti ti chiedano con che rituali, orari, modalità scrivi, e nessuno ti chieda mai come lavi i piatti.

Ci pensavo leggendo Anne-Marie dire che «È una buona cosa per la carriera quando hai l’aria di una che non chiede niente. Qualche tentativo di languore l’ho fatto pure io. Ma non è mica da tutte fare la languida». O leggendo quelle due paginette che cominciano col padre che se ne va di casa e finiscono con «Nel frattempo, a Saint-Sourd, mia madre si era suicidata» (chissà se anche Reza ha avuto l’età dello sviluppo infelicitata da Marguerite Duras, e poi invecchiando ha deciso di tenerne la secchezza ma d’abbandonare la vocazione al tragico, o almeno d’attenuarla con un qualche senso dell’umore).

Pensavo alla scena dell’acquisto del formaggio in “Felici i felici”, quella che Reza racconta essere l’idea da cui è partita, quella che tutti ricordano, quella che restituisce un’immagine deforme e fedelissima anche a chi non sia mai stato sposato, non abbia mai mangiato formaggi, non sia mai entrato in un supermercato. Quella che quarant’anni fa avrebbe fatto dire «scrivi come un uomo», e oggi, che stiamo più attente, ci fa costruire modi dicibili di fare gli stessi apprezzamenti. Per esempio: sono proprio contenta, signora Reza, che lei non debba scansare marmellate. Come lo so? Si vede: scrive come una che abbia una stanza tutta per sé.

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