Fuori il nomeÈ ora che i “quasi leader” riformisti scelgano il frontrunner che salvi il lavoro (e l’Italia)

Il dibattito sulle pensioni è inquinato da retoriche passatiste, dalla ricerca di presunti dividendi elettorali e da una miope analisi dei dati demografici. Per fortuna abbiamo Mario Draghi, ma serve una personalità politica che lo aiuti a impostare un futuro economico per il nostro Paese

Photo by Josh Howard on Unsplash

Il dibattito nascente sulle pensioni e la posizione di bandiera della Lega, o meglio di Matteo Salvini e dei sindacati con il Pd consenziente, sono semplicemente surreali alla luce della situazione del Paese. Ancora una volta un presunto dividendo elettorale, peraltro molto dubbio perché gli elettori sono più rapidi dei politici nel cambiamento di opinione, rende impossibile un dibattito aperto sulle vere necessità. Avremmo bisogno di altro spessore nel dibattito politico, ma purtroppo il centro liberale e riformista stenta a spiccare il volo e restiamo prigionieri di leadership modeste, populiste e antiche in un mondo che cambia rapidamente dopo il Covid e che richiederebbe, al contrario, competenza e visione.

Alcuni dati
Nel 2021 nasceranno circa 380mila nuovi italiani (solo dieci anni fa i nuovi nati ogni dodici mesi erano oltre 500mila). E i sessantenni che saranno toccati dalle regole pensionistiche sono circa 800mila l’anno. A parità di tasso di partecipazione al lavoro siamo di fronte a un’emergenza demografica senza precedenti. Ogni anno dei prossimi dieci usciranno dal mondo del lavoro circa 200mila persone più di quelle che ci entreranno, e per rimpiazzarle l’unica possibilità è l’immigrazione. L’impatto economico e sociale di questi numeri è impressionante. Solo per effetto demografico “sparirà” in dieci anni circa l’otto per cento del Pil, delle tasse, della possibilità di sostenere l’impatto delle pensioni di chi oggi ha tra 50 e 60 anni.

Le scelte
In questo contesto agevolare l’uscita anticipata dal mondo del lavoro significa esasperare un problema già gravissimo di suo. Tra l’altro, qualsiasi imprenditore del Nord sa già oggi che il vero problema nei prossimi cinque anni sarà il reperimento dei lavoratori. Ci sono posizioni scoperte che non trovano offerta di lavoro in molti settori, ed è del tutto comprensibile vista la dinamica demografica. Mancano 200mila giovani l’anno e l’incremento di produttività non è per nulla sufficiente a compensare.

Dal punto di vista del lavoratore, ci sono evidenze plurime di persone che vanno in pensione anticipata senza grande entusiasmo. Non tutti ovviamente, e certamente non quelli che hanno lavori davvero usuranti. Ma la grande parte dei colletti bianchi vede un allungamento della vita e soprattutto della qualità della vita che mal si concilia con venti o trenta anni di “pensione”. Molti vorrebbero restare nel mondo del lavoro, avendone possibilità, salute, e anche interesse professionale e personale. Insistere per anticipare la pensione a 62 anni è una scelta scellerata che, a parte i costi di sistema enormi, penalizza le persone, le aziende e il nostro sistema sociale.

Le possibilità alternative
In un mondo liberale si potrebbe benissimo lasciare l’opzione alle persone di andare in pensione anticipata, ma con una penalizzazione del trattamento che tiene conto dell’aspettativa di vita. Il calcolo è relativamente semplice da fare e, se la penalizzazione è adeguata, il costo per lo Stato è nullo. Laddove una persona scegliesse per sue ragioni personali questo anticipo, il costo non ricadrebbe sulla collettività.

Parallelamente, si potrebbe incentivare il lavoro dimezzando i contributi sociali pagati oltre i 60 anni e trasferendo il risparmio per le aziende in parti uguali tra lavoratore e azienda stessa. Questo favorirebbe la scelta (sempre libera e individuale) di restare più a lungo nel mondo del lavoro con un stipendio del 10-15 per cento circa più alto (la metà dei contributi non versati) e con un costo per lo Stato relativamente contenuto o anche nullo visto che si ritarda la pensione e si continuano a versare tasse e, seppure in misura ridotta, contributi.

L’impostazione è ovviamente antitetica rispetto alla retorica antica, e populista, dei sindacati. Lasciare libere le persone e le aziende con incentivi economici che sono finalizzati al bene della collettività è esattamente l’opposto di quanto i sindacati hanno fatto negli ultimi trent’anni, ingessando sempre più i comportamenti per difendere i privilegi degli anziani e anche di chi sceglie di non lavorare a scapito enorme delle nuove generazioni che saranno costrette a pagare un conto salatissimo per gli assurdi scempi che sono stati perpetrati.

Difficile quindi che passi una simile proposta rispettosa dei diritti dei giovani, rispettosa delle libere scelte individuali e soprattutto finalizzzata allo stimolo di una crescita economica di cui abbiamo assoluto bisogno.

L’evoluzione della politica italiana
Per fortuna abbiamo Mario Draghi e non l’ineffabile Giuseppe Conte che non avrebbe capito il problema e avrebbe convocato Rocco Casalino per capire che cosa gli convenisse dire. Draghi ha detto chiaramente che quota 100 è un errore e il tema è solo discutere dello scivolo. Posizione ineccepibile e, come sempre, misurata.

C’è da chiedersi come saremmo se al posto di Draghi ci fossero Matteo Salvini o anche Enrico Letta, allineato storicamente a un certo sindacato, che si guarda bene dal prendere posizione temendo di rompere i rapporti con la Cgil.

Lo scenario che ci aspetta è determinato da quanto l’alternativa prodotta dalla ricomposizione in corso della politica sarà davvero liberale, socialista e riformista. E cioè se si riuscirà a perpetuare nel tempo (un tempo che speriamo indefinito) il governo Draghi, che è di gran lunga il migliore degli ultimi vent’anni e che è senza paragone con i due peggiori esecutivi della storia della Repubblica guidati da Conte e sostenuti dai Cinquestelle.

Purtroppo né il Pd né il centrodestra sembrano voler capire che lo spazio economico che avremo alla fine dello stimolo straordinario del Pnrr e degli acquisti di titoli di Stato da parte della Bce sarà ristrettissimo. I Cinquestelle in via di dissoluzione non contano e comunque non hanno, come sempre, alcun pensiero sul tema. Dovremo cavarcela in un contesto di demografia drammaticamente negativa, gestire flussi di immigrati che diventeranno assolutamente indispensabili, con un debito pubblico a livelli elevatissimi e non più aumentabile, e in un contesto geopolitico che segna la fine della globalizzazione senza freni e che lascia spazio a varie forme di localismo più o meno protezionista.

Un contesto esterno che non è certo favorevole per l’Italia, ma che è assolutamente inevitabile. Serve visione, competenza e lavoro per il lungo termine, e non un becero populismo, una rincorsa di presunti dividendi elettorali (no vax), un cerchiobottismo condito da inutili battaglie identitarie (il Pd col decreto Zan e lo scioglimento di Forza Nuova) e un’insipienza condita con una totale assenza di proposte concrete (Conte e i Cinquestelle).

Non esiste soggetto politico, oggi, che riesca a emergere in questo quadro desolante. Il risultato di Carlo Calenda a Roma, le idee di Marco Bentivogli, il patrimonio di cultura politica di Matteo Renzi e, finalmente, le prese di posizione di Renato Brunetta, Mariastella Gelmini, Giancarlo Giorgetti, Luca Zaia sono lì che aspettano di trovare un contenitore e un leader adeguato. Purtroppo questo leader non sarà mai Draghi (che, per fortuna, è molto diverso da Mario Monti) ma dobbiamo sperare che i troppi galli nel pollaio centrista antepongano l’interesse di tutti alle ambizioni personali e sappiano indicare un leader inclusivo, rispettato internazionalmente, capace di ispirare fiducia alla nazione.

Se succedesse davvero e non solo nei sogni di noi liberali convinti, avremmo davanti una stagione difficile ma anche entusiasmante in cui l’Italia potrebbe recuperare almeno in parte il terreno perduto negli ultimi trent’anni di cattiva politica e essere quindi un riferimento per l’Europa.

Un nome, servirebbe solo un nome, purché sostenuto convintamente da molti protagonisti dello spazio di centro liberale, che indichi Draghi come prossimo presidente del Consiglio e lo sostenga convintamente per tutto il tempo che vorrà prestarsi al compito complesso ma fondamentale di guidare questa transizione al mondo post-Covid caratterizzato da risorse umane scarse, da colli di bottiglia produttivi e da una transizione ambientale lunga, molto costosa e difficile.

Ma in questo deserto dei tartari della politica italiana dove i leader si chiamano Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Enrico Letta e Giueseppe Conte, tutti per motivi diversi totalmente inadeguati a guidare il Paese, qualsiasi “quasi-leader” centrista pensa, peraltro correttamente, di potere fare meglio di persona e non fa il passo indietro necessario per indicare un leader super partes inclusivo che abbia credibilità in Europa e statura innanzitutto personale per svolgere questo ruolo.

La stagione del populismo è alla fine in tutto il mondo ma gli strascichi che lascia sono ancora pesanti, anche perché – come dimostrato nelle difficoltà di scelta nei candidati alle recenti elezioni comunali – la gogna mediatica dei social media allontana dalla politica la cosiddetta società civile e continua invece a favorire la selezione per incarichi politici di personalità narcisistiche, senza un retroterra di compiutezza personale prima della politica, e senza un futuro dopo la politica.

È purtroppo la conseguenza nefasta di un sistema sociale democratico e trasparente in Occidente che male compete contro il sistema dittatoriale e non trasparente della Cina, ma a cui nessuno di noi vuole giustamente rinunciare. È più dura, ma solo se le democrazie occidentali saranno in grado di selezionare una classe dirigente di grande qualità potranno competere nel mondo più protezionista e con continue “scarsità” che sta venendo avanti.

Del resto, la prova evidente è Draghi, che in pochi mesi ha dimostrato che cosa significhi essere un leader competente e quale possa essere l’impatto positivo su un intero Paese.

Quindi si può fare, serve la volontà delle parti e la capacità di scegliere i migliori, non quelli che urlano di più, o manipolano i media vecchi e nuovi in modo più strumentale, o sfruttano i vecchi stantii riti del partito e della piazza per fini di potere personale.

Ma serve che i “quasi leader” escano allo scoperto, si parlino sinceramente e trovino un nome, solo un nome, che faccia da frontrunner e che, oltre alla faccia, ci metta cuore, passione e competenza.

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