Un film su quella famosa giornata del gennaio ’69 e sugli eventi che avevano condotto la band più famosa della storia a chiudere la carriera con un concerto in terrazzo a ora di pranzo nella scicchissima Savile Row, già c’era e l’avevamo visto da ragazzi, nella penombra di un cinemino d’essai milanese. Si chiamava “Let It Be” e ci sembrò una magia che, solo a pochi mesi dagli eventi e al modico prezzo d’un biglietto, ci venisse permesso di penetrare nell’intimità degli idoli incontrastati, di percepirne gli umori e osservarne i tic e le dinamiche.
Il film non era allegro, ci tirava un’evidente aria di dismissione, si capiva che era la cronaca più o meno volontaria d’un epilogo, che nel frattempo si era pubblicamente consumato. I Beatles non esistevano più, già circolavano i quattro album dei loro esordi solistici (bellissimi), ma noi eravamo pazzamente orfani, anzi, vedovi.
Ripensando a quella visione, il più delle cose apparivano chiare: il meccanismo della fratellanza s’era logorato, il tempo della magica sincronia era clamorosamente trascorso e adesso i Beatles erano – e apparivano – grandi, adulti, diversi, così fighi, alla moda, charmant, ciascuno a modo suo, così vissuti, così “post”, come si sarebbe detto dopo.
Eppure, anche loro un po’ orfani, come noi, dopo aver assistito con impotenza alla fine della parte eroica della loro esistenza, che aveva saputo sorprenderli, sconvolgerli, travolgerli.
Di quel film si ricordavano i colori acidi e sbavati, i mugugni sparsi nei tempi morti delle prove, le esitazioni, lo scarso livello empatico, eppure la reciproca conoscenza definitiva, che rendeva superflue le parole. E poi l’esplosione situazionista di quel concerto, sgangherato e meraviglioso, grondante umidità e londinesità, le facce onorate ed entusiaste degli spettatori casuali, il flusso d’amore consolidato, i vocals tirati là con forza e rabbia, senza l’antica ricerca delle harmonies, il suono rauco, maturo, consumato, si potrebbe dire assoluto, non rivedibile.
Da lì, passa mezzo secolo, una vita. Adesso, che siamo nell’epoca del Covid (se ce l’avessero detto allora…) torniamo sul luogo del delitto con gli strumenti della modernità che – sempre se ce li avessero annunciati uscendo da quel cinema milanese – ci sarebbero sembrati fantascienza: lo streaming personale degli spettacoli, un film di 8 ore consumabile su un telefono portatile, un servizio che somiglia a una tv, ma col marchio di Disney, quello di “Dumbo” – che diavolo c’entra coi Beatles?
Ebbene, nel novembre 2021 l’archeologia sentimentale della pop culture festeggia un altro dei suoi avvenimenti. E su Disney+ sbarca – in esclusiva e a pagamento – l’opera di Peter Jackson, l’architetto del “Signore degli Anelli”, che ha soddisfatto la sua passione adolescenziale, rimontando con cura certosina, gusto da collezionista e maestria da uomo di cinema, quella stessa storia, ovvero le sessanta ore di pellicola girata in occasione della registrazione dell’ultimo disco dei Beatles, in coincidenza con la dissoluzione della band. Risultato: tre puntate lunghissime, per un totale di otto ore di visione. Un’immersione in un passato emotivamente esigente, una prova non così scontata per chi c’è stato, o per chi ha vagheggiato quelle vicende e l’epoca di riferimento.
E per coloro che hanno avuto la ventura di vivere entrambi i capitoli di questa storia, dall’uscita di “Let It Be” (1970) a quella di “Get Back” di questi giorni, il primo choc sarà inaspettatamente di ordine cromatico. Adesso i colori freddi e strappati che si conservavano nella memoria, grazie alla magia tecnologica del restauro e della colorimetria, hanno assunto nuances diverse, che abbracciano l’intero lavoro e sono morbide, pastellate, piene di dolcezza e grondanti d’una punta di fastidiosa nostalgia, che l’urgenza nervosa della contemporaneità non poteva di sicuro contemplare.
Ma ora tutto è passato, i morti sono sepolti, i vivi sono pacificati, questa è storia di un secolo già in archivio, i Beatles sono un monumento stilizzato, forse perfino “un’esperienza”, certamente un’eco che non smette di risuonare.
Perciò, seppure con ritegno e con una certa ritrosia (siamo sicuri che, oltre il voyeurismo, la visione ci procuri rivelazioni o una comprensione più ampia di quella in presa diretta?), insomma si finisce sprofondati nei cuscini e si entra in questa potente macchina del tempo
Dunque Twickenham, gli enormi studi cinematografici, un capannone freddo e cavernoso, dove i Fab Four si sono dati convegno per preparare uno special tv che deve andare in onda appena tre settimane dopo, perché l’azienda deve lavorare, anche se perde colpi, e alle viste c’è un live album di inediti. Ma gli studi sono un postaccio, nessuno ha voglia di starci, tutti arrivano in ritardo o fanno sega e a frantumare l’intimità ci sono presenze permanenti, ben oltre a quella perenne e storicizzata di Yoko (John: «Mi piacerebbe ci fosse un quinto Beatle». Paul: «Le cose vanno già abbastanza male in quattro»).
Per esempio c’è spesso Linda, laconica e smagliante futura signora McCartney, con Heather, figlia adottiva che è una peste, più perniciosa dell’odiata giapponese, ci sono degli Hare Krishna amici di George, c’è un’organizzazione di gente preoccupata.
Il restauro della saga architettato da Peter Jackson si apre qui, su questo quadro di malessere generalizzato. Michael Lindsay-Hogg, ragazzo di buona famiglia dai modi così antipatici da essere buffi – lo stesso che ha girato il “Rock’n’Roll Circus” degli Stones – ha l’incarico di guidare i filmati per lo special, che secondo lui (ma solo secondo lui – i Beatles lo pigliano per i fondelli quando ne parla), dovrebbe culminare in un concerto della band in un antico anfiteatro di Tripoli. Non è aria di esotismi, si vede lontano un miglio, la temperatura psicologica è polare. La caduta del tempio è dietro l’angolo e si tratta solo di stabilire a chi tocchi buttar giù la prima pietra.
Eppure, c’è un dolore diffuso, un senso di cacciata dal paradiso, ci sono i nervi a fior di pelle e poi dei momenti di magica, giovanilistica riconnessione, quando viene voglia a tutti di risuonare i classici del rock’n’roll, di cui non sono mai sazi. Paul e George sono alle strette («Ho sempre l’impressione di annoiarti», «No tu non mi annoi più»), George si sente incompreso («Dovremmo pensare a un divorzio»), è gennaio e a Londra fa un freddo fottuto, il 24 gennaio Ringo se ne andrà per partecipare a un film con l’amico Peter Sellers: bisogna sbrigarsi, rimettere in funzione la macchina da spettacolo. I congegni della collaborazione cigolano, però capita che Paul, giocando col suo basso (che suonava quasi sempre come una chitarra, col plettro e prendendo gli accordi), in una specie di condizione estatica, butti giù le fondamenta di “Get Back”, uptempo capolavoro, nemmeno fosse uno scherzetto. Guardando loro viene da dire: questo è pop music, bellezza – o ci sei dentro, o lascia stare.
Jackson traccia in ordine cronologico gli avvenimenti dei 22 giorni che portano al concerto sul terrazzo: preparatevi a sentire un numero infinito di versioni di “Don’t Let me Down” e abituatevi a vedere i quattro non farsi sfuggire l’occasione di fare una smorfia demenziale verso la cinepresa. La rivelazione, soprattutto per i fans, è la chiarissima gerarchia e il posizionamento delle figure nel mondo-Beatles che emerge da questo documento.
Paul ha assunto il totale comando e controllo delle operazioni musicali, anche perché è palesemente il più dotato e attrezzato musicalmente. È il band leader, mentre John è in una posizione periferica, silenzioso, assente o stonato, mai aggressivo, servizievole, moderatamente coinvolto.
George è il più a disagio: soffre la pressione di Paul sotto l’aspetto tecnico, non sente il rispetto del compagno come prima chitarra della band e su di lui pende l’ombra dell’amico-rivale Eric Clapton, che da un lato gli insidia la consorte, dall’altro l’aiuta a evolversi col suo strumento.
Ringo non smette mai i suoi panni da paziente ultimo arrivato, coltiva interessi diversi, sprizza empatia e nessuno gli chiede di più. George Martin non sembra il santone che abbiamo creduto, si preoccupa soltanto dell’efficienza tecnica delle prove e non si intromette nelle questioni compositive, come se avesse esaurito le mansioni di svezzamento. Il resto è contorno.
Man mano che procede la visione, ci si sente là con loro, nella palude psicologica di una band in crisi d’identità, alla ricerca di un impossibile ritorno di grazia. E la saga continua, come un sogno: nel secondo capitolo si sposta nello studio dove i Beatles riparano, stanchi di Twickenham.
Siamo nel cuore di Londra, nell’edificio della Apple, spazio raccolto, amichevole, fighetto. Attorno c’è la città pulsante e le cose, sia pur a singhiozzo, vanno meglio. Arriva Billy Preston e comincia a suonare con loro, con un tocco e una morbidezza mirabili. E i pezzi cominciano a fluire, il meccanismo si è riavviato, certe connessioni non finiscono mai. John e Paul si guardano negli occhi cercando la quadra vocale di “Two of Us” e assistere è elettrizzante.
Le pagine di questo diario beatlesiano s’arricchiscono di perle: il rituale della ripetizione dei pezzi diviene la legenda del film, come della vita di questo irripetibile consorzio. Affiora la consapevolezza che la separazione, alla fine, non sia altro che la continuazione del loro stare insieme, in un legame che è eterno e inscindibile. E nella meraviglia dei colori reinventati da Jackson, che convogliano passato e presente, si plana nella terza e ultima parte del doc, quella del concerto, delle dieci cineprese che girano insieme e con cui il regista di oggi inventa una fantasmagoria di visione che scioglie interrogativi decennali (che si dicono i poliziotti, mentre s’appropinquano alla sede del concerto che disturba la quiete pubblica? Finalmente lo saprete…).
Quel giorno i Beatles sono tirati a lucido, sono bellissimi e per l’ultima volta tornano a essere una band. È una liturgia irresistibile, a cui si assiste commossi come al funerale di un amico. Le parole non servono, perché dentro queste immagini – di ieri? di oggi? – ci sono stralci della vita di tutti noi. Il bello è pensare che quella sera, dopo l’ultimo concerto, quando la cerimonia è stata consumata, la vita continua per tutti e anche per loro, andrà come deve andare.
Noi da teenager guardavamo impietriti lo show, loro traversavano ancora i loro vent’anni. Noi, di nuovo, mezzo secolo dopo torniamo a contemplarli e ci sentiamo un po’ stupidi. Forse questo rituale è perfino inutile e appiccicoso, ma non c’è niente da fare, non si resiste. Le immagini ti risucchiano e senti un dolore a sapere che se domani andassi a Savile Row, non troveresti nemmeno più le scie di questi fantasmi.