A inizio luglio la Food and Drug Administration e la Agenzia europea per i medicinali, gli organismi di farmacovigilanza di Stati Uniti e Unione europea, sostenevano come non fosse accertata la necessità di somministrare una terza dose nella popolazione vaccinata, sulla base dei dati disponibili. Era un giudizio corretto, la cui traduzione giornalistica fu però una smentita di un’ipotesi che semplicemente non poteva ancora essere compiutamente verificata e che si sarebbe dimostrata fondata.
Dopo una violenta impennata dei contagi, il paese che per primo aveva avviato una massiccia campagna di vaccinazione di massa, Israele, a fine luglio ha iniziato a somministrare la terza dose a tutti gli ultra sessantenni. I dati si sono nel frattempo incaricati di dimostrare ciò che molti esperti già prevedevano, e che le aziende farmaceutiche sostenevano, cioè che la protezione offerta dalle prime due dosi di vaccino si sarebbe nel tempo fortemente ridotta. Inoltre, i risultati ottenuti in Israele hanno confermato che la terza dose funziona egregiamente per ridurre contagi, ospedalizzazioni e morti.
L’unica residua riserva sull’utilità di una massiccia campagna di terze dosi alla generalità della popolazione vaccinata nasce da una valutazione di strategia sanitaria globale. Le terze dosi somministrate nei paesi ricchi del mondo implicano un altissimo costo opportunità in termini di riduzione dei vaccini disponibili nelle aree più povere e quindi di sacrificio del diritto alla salute di miliardi di persone e di aumento del rischio di sviluppo di nuove pericolose varianti del virus. Ma al netto di questa valutazione, che peraltro i governi dei paesi ricchi non tengono in considerazione sotto la pressione delle rispettive opinioni pubbliche, la somministrazione della terza dose ai già vaccinati, nel frattempo autorizzata da FDA ed EMA, è oggi la principale sfida politico-sanitaria nella strategia contro il Covid in tutti i principali paesi avanzati.
È una sfida organizzativa, ma è anche una sfida di comunicazione e di fiducia, perché si tratta di convincere quella grande maggioranza della popolazione, che da gennaio ha aderito spontaneamente a una campagna vaccinale presentata come la soluzione definitiva contro il Covid, a fare un’ulteriore dose non prevista, quando non apertamente esclusa fino a poche settimane fa.
Si tratta cioè di convincere, con argomenti razionalmente persuasivi e non solo emotivamente mobilitanti, le persone a collaborare volontariamente a una strategia esattamente contraria a quella a cui il vaccino sembrava dovere servire: il reset del sistema e il rapido ripristino di un mondo senza Covid.
Per persuadere chi ritiene che alla fine i vaccini siano stati una promessa non mantenuta, anziché, come è nella realtà, uno straordinario strumento di resistenza a una minaccia endemica, non occorre tanto fronteggiare le verità alternative del fronte no-vax, che peraltro hanno una contagiosità molto relativa, ma serve in primo luogo liberare la strategia vaccinale dagli apparati ideologico-religiosi e dalla psicagogia miracolistica, in cui è stata fin dall’inizio impacchettata, per risultare più desiderabile e digeribile a un’opinione pubblica impaurita.
Quindi occorre in primo luogo smettere di presentare ipotesi dubbie, a maggior ragione se ottimistiche, come verità dimostrate, e di rintuzzare i dubbi e le incertezze con impegni che non si ha la più pallida idea se potranno essere mantenuti. Affermazioni come quella resa dalla struttura commissariale del generale Figliuolo il 1 agosto: «Il risultato [cioè la vaccinazione del 60% dei vaccinabili] rappresenta una tappa importante verso l’immunità di comunità, che è prevista entro la fine di settembre, con il completamento del ciclo vaccinale da parte dell’80% della platea da vaccinare», se possono essere servite al tempo – ipotesi non dimostrata – a convincere qualche riluttante, a distanza di tre mesi sono un’arma propagandistica no-vax, visto che con ogni evidenza il raggiungimento del target vaccinale non ha immunizzato, come promesso, la società, che al contrario è alle prese con un aumento dei contagi malgrado l’introduzione di nuove restrizioni, come il green pass.
Il paradosso è che, nei fatti, i soli punti di forza della propaganda no-vax sono rappresentati dalla debolezza di una comunicazione pro vaccini concepita per suscitare stupore e timore, non consapevolezza e comprensione della complessità dei problemi e della relatività delle soluzioni.
L’evidente difficoltà a cambiare registro sul piano della comunicazione ha quindi forse un rapporto con la lentezza della nuova campagna vaccinale e con la scelta di continuare a connettere l’aumento dei contagi esclusivamente alla resistenza dei no-vax.
Se infatti questi ultimi continuano a credere a cose assurde, rispondendo a motivi psicologici profondi e incoercibili sul piano puramente razionale ed esprimono nell’ostilità ai vaccini una weltanschauung allucinata, ma tutto sommato coerente nei suoi sviluppi, è molto difficile credere alla buona fede di chi razionalmente pretende di ridurre i problemi di questa nuova fase pandemica alla resistenza di frange minoritarie e continua a giocare alla guerra permanente coi no-vax, come se su quella sola trincea davvero si giocassero le sorti dello scontro con il Covid.
Serve insomma una terza via tra quella puramente no vax e quella simmetricamente anti-no-vax per fare spazio a una comunicazione corretta sulla terza dose.
Non è vero, a differenza di quel che dice Speranza, che l’andamento dei contagi e delle morti di qui a Natale «dipende da noi», cioè da una somma di comportamenti individuali.
Dipende anche e soprattutto da una serie di scelte responsabili e leali, nelle cose che si dicono, come in quelle che si fanno, da chi esercita un effettivo potere di governo. In primo luogo il più o meno sereno Natale dipenderà cioè da quanto rapidamente saranno somministrate le terze dosi a quei 45 milioni e mezzo di italiani che si sono spontaneamente vaccinati.
A metà maggio erano state vaccinate completamente, cioè con entrambe le dosi, oltre nove milioni di persone: i più vulnerabili per età e condizioni sanitarie. A metà novembre, solo tre milioni di italiani hanno ricevuto la terza dose. Per circa mezzo milione (trapiantati e immunodepressi), la terza dose aggiuntiva è servita a completare il ciclo vaccinale primario.
Due milioni e mezzo sono invece le dosi di richiamo (booster) somministrate a chi ha completato il ciclo vaccinale primario da almeno sei mesi. Peraltro, a metà maggio, cioè sei mesi fa, le somministrazioni giornaliere erano stabilmente almeno il doppio di quelle registrate nell’ultima settimana (quasi mezzo milione contro meno di duecentocinquantamila): il che significa che ogni giorno, a questi ritmi, il divario tra le terze dosi somministrate e quelle effettivamente necessarie per non lasciare la popolazione scoperta è destinato ad allargarsi, con prevedibili effetti sull’aumento dei contagi.
Per rimediare dovranno riaprire rapidamente gli hub nel frattempo chiusi, ma si dovrà anche rapidamente uscire da questa guerra di religione, con le relative e contrapposte inquisizioni, attorno al feticcio simbolico dell’immunità vaccinale. Per fare questo, le istituzioni non possono certo contare sul contributo della stampa antagonista, che prosegue nei suoi deliri sulla occultata letalità dei vaccini e sugli interessi inconfessati di Big Pharma, né su quella governativa, che è troppo impegnata nella quotidiana macellazione del capro espiatorio no-vax per occuparsi di alzare lo sguardo sul resto del campo di battaglia.
Si badi comunque che la lentezza italiana sulle terze dosi non è una eccezione, sul piano internazionale. A parte Israele e Regno Unito, la gran parte dei paesi avanzati sono in ritardo, ma l’Italia è con la Germania in coda alla classifica delle dosi booster somministrate quotidianamente ogni 100.000 abitanti
La stessa notizia di un boom di contagi tra il personale sanitario, medici e infermieri, con i casi triplicati nel giro di due mesi, va ovviamente messa in relazione al ritardo nella somministrazione delle terze dosi (l’ha ricevuta circa un sanitario su due). E questo ritardo non è affatto causato dalla mancata reiterazione dell’obbligo vaccinale per il personale sanitario, peraltro molto razionale, ma dalle mancate somministrazioni di terze dosi a medici e infermieri nella stragrande maggioranza dei casi più che disponibili a vaccinarsi.