Curb your un sacco belloDi Verdone sappiamo già quasi tutto, peccato che in Vita da Carlo non ci racconti il resto

Al contrario di Larry David, della cui quotidianità non si sapeva niente, l’attore e regista romano ha già mostrato molto di sé attraverso i suoi fenomenali personaggi cinematografici. E poi, non è rispettoso dirlo perché CV è autore di capolavori, ma quanta sciatteria in questa serie Amazon Prime

Lapresse

Di Carlo Verdone sappiamo tutto. Sappiamo tutto dai suoi film (alcuni dei quali bellissimi) e dalle sue interviste (tutte sempre bruttissime): la sua ipocondria, l’invadenza dei romani nei suoi confronti, la stanchezza per le maschere e l’incubo di vedersele richiedere tali e quali quarant’anni dopo.

Nel 2000, di Larry David non sapevamo niente. Era stato un comico di nessun successo che poi s’era inventato, assieme a Jerry Seinfeld, la serie comica di maggior successo della tv americana. Seinfeld era andata in onda per dieci anni e, benché David l’avesse mollata alla settima stagione, risultarne ideatore gli garantiva introiti fantastiliardari a vita.

I lettori di riviste specializzate sapevano che il personaggio più odioso (erano tutti odiosi, ma lui di più) di Seinfeld, George Costanza, era ispirato a Larry David, ma era un frammento d’un’informazione di nicchia: non erano tempi in cui gli autori delle serie televisive facessero parte dello star system.

È anche per questo che Curb Your Enthusiasm fu da subito una meraviglia. Il miliardario sociopatico che frequenta Hollywood ma la disprezza non ci faceva dire ogni minuto: sì, ma questa la so già. C’entrava l’imprevisto, ma c’entrava anche la sgradevolezza: Larry David non ha mai avuto paura di fare schifo. Di risultare anaffettivo, egoista, sprezzante, viziato.

Il problema di Vita da Carlo è Carlo Verdone. È il fatto che di Carlo Verdone sappiamo troppo, abbiamo già visto tutto, si è già messo in scena – mai come sé stesso, teoricamente, ma sempre come sé stesso, in pratica: se bastasse cambiarsi nome, non saremmo tutti certi di sapere cosa pensa di qualcosa Nanni Moretti solo perché Michele Apicella ha detto la sua su quel qualcosa.

Se hai vissuto a Roma, poi, è impossibile non avere avuto resoconti di Verdone-nella-vita. Non lo conosco – l’ho intervistato due volte, è stato gentilissimo, ma intervistare qualcuno non vuol dire conoscerlo, anche se è un concetto ostico per intervistatori che chiedono autoscatti all’intervistato per mostrare agli amici di Facebook che ne sono intimi – ma ho alcuni amici che sono amici di Verdone. E tutti concordano nel descriverlo sì com’è in Vita da Carlo – vittima dell’altrui invadenza e del proprio non saper dire di no – ma anche molto più interessante: pettegolissimo, cattivissimo, stronzissimo.

Tutta roba che non c’è, nella serie di Prime in cui Carlo Verdone narra una versione rimaneggiata della propria vita. In Vita da Carlo c’è un Verdone che non si capisce come faccia a fare il regista – il mestiere più autoritario del mondo – considerato che è in balìa di chiunque: della figlia, dell’ex fidanzato della figlia, della cameriera malmostosa, del produttore avido, dello sceneggiatore velleitario, della farmacista scaldamutande, della fan malata terminale, persino d’una ragazzina che ha bisogno della pillola del giorno dopo.

Mentre scrivo di Vita da Carlo continua a rimbombarmi in testa la voce d’un amico che, molti anni fa, in una discussione in cui alcuni arroganti parlavano di Philip Roth come fosse stato uno scrittorucolo qualunque, sbottò: ragazzini, un po’ di rispetto. Ecco: posso dire che quello che ha fatto Borotalco e Troppo forte è un regista scarso? Non ci vorrà un po’ di rispetto? Non toccherà darsi una regolata e non liquidare i colossi del cinema italiano (quasi citazione verdoniana) come fossero gli ultimi stronzi? (Sì, ho citato due titoli del primo Verdone: sono come la fan terminale che non apprezza le trovate della seconda parte della sua carriera).

Però la sciatteria di Vita da Carlo è davvero fastidiosa. Risposte che riprendono domande scomparse nel montaggio finale del dialogo. Casting che smentiscono le premesse (in un universo in cui Verdone è Verdone e ha girato i film di Verdone, può Rocco Papaleo – interprete dell’ultimo film di Verdone – essere non un attore ma uno spacciatore?).

Pistole cekoviane che non sparano. Quando la notizia della sua candidatura a sindaco esce su un sito, Verdone se ne accorge? Non si sa, non vediamo una reazione, esce di casa ed è pieno di giornalisti che gliene chiedono conto, non si capisce se ne sia sorpreso o no, è sempre come se in montaggio si fossero persi dei pezzi di girato.

Ogni tanto s’intravede un lampo, ed è quello dell’occasione perduta di fare un grande ritratto di romano. D’un romano famoso che conduce la vita infernale che solo a Roma tocca, in quella misura, ai famosi: Francesco Totti ha raccontato d’aver potuto girare, grazie alla pandemia, per la prima volta nel centro di Roma, dove con la mascherina non s’accorgevano fosse lui. Carlo Verdone ci fa vedere qualche volta la gente che lo ferma nelle occasioni più improbabili per un selfie, poi forse decide che è troppo, e rinuncia a darci la misura di che inferno sia essere Carlo Verdone, specialità locale, nella città che le sue specialità locali le divora.

La trama orizzontale di Vita da Carlo – che a un certo punto gli sceneggiatori paiono sciattamente dimenticarsi, poi sciattamente riprendono – è che Verdone fa una tirata sulle buche per strada, che ovviamente viene ripresa da un cellulare, messa sui social, e gli vale una candidatura a sindaco. (Quando portano il video al capo del partito perché lo veda, in cima alla schermata c’è il logo «Live» di Instagram, come se Verdone la sua tirata la stesse facendo in quel momento: quanta sciatteria, quanta Roma).

La protagonista, sembra volerci a tratti dire Verdone, è quella città lì. In cui tutto – le strade, l’immondizia, il traffico – fa schifo, e i romani preferiscono girarsi e fotografare un tramonto e atteggiarsi a compiaciuti.

Chissà se era quello che voleva fare, una serie su Roma. Non sembra saperlo lui, né chi a Amazon ha fatto i sottotitoli: invece di riportare i dialoghi come sono, come accade in tutte le serie del mondo, hanno deciso di trasformarli in un compitino d’italiano delle medie.

«C’è ’na piramide de monnezza» diventa «C’è molta spazzatura», «Non postatela» diventa «Non pubblicatela», «Me lascia ’n mezzo a ’na strada» diventa «Mi abbandona». Una vita a subire il monopolio del romanesco sul parlato televisivo e cinematografico, e a ripulirlo cominciamo proprio da quell’entelechia della romanità che è Verdone?

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter