Grillismi rovesciatiConte parla solo di organigrammi e Letta lancia la “piattaforma Pd”

Lo strano percorso parallelo di due leader nominati dai rispettivi capicorrente, ma ansiosi di affrancarsene. L’uno nominandosi un intero stato maggiore, l’altro provando ad aggirarlo

di Susan Q Yin, da Unsplash

A nemmeno due settimane dalla singolare apparizione di Giuseppe Conte attorniato dai suoi cinque nuovi vicepresidenti, da lui stesso presentati al pubblico durante la trasmissione di Lucia Annunziata, ieri è stata la volta di Enrico Letta e dei suoi sei «osservatori indipendenti», questa volta su Repubblica Tv.

Il parallelismo colpisce anche perché non è l’unico. Sia Letta sia Conte, infatti, sono stati insediati alla guida dei rispettivi partiti non già da un congresso, ma in base a un accordo tra i principali capicorrente, cui è seguito un voto pressoché unanime – anche perché in entrambi i casi il candidato era uno solo – da parte della direzione (per Letta) o della rete (per Conte). Entrambi, per prima cosa, hanno tentato di intervenire nella scelta dei capigruppo di Camera e Senato. Qui, Letta ha ottenuto forse una vittoria di Pirro, a meno che non si voglia considerare un trionfo l’essere faticosamente riuscito a far dimettere Andrea Marcucci; Conte una sconfitta secca, tanto più notevole perché il suo candidato al Senato era il capogruppo uscente, Ettore Licheri, la cui rielezione era data da tutti per scontata. È finita invece che Licheri, dopo essere andato alla conta, e aver visto di non avere i numeri, si è dovuto ritirare.

L’impressione è insomma che Letta e Conte stiano cercando di costruirsi un proprio gruppo, se non una corrente, per potersi affrancare dalla tutela di quegli stessi dirigenti che li hanno messi lì. Con alterni successi.

Per quanto riguarda Conte e la sua intervista a Mezz’ora in più, a parte il siparietto sulla presentazione dei vice, chiamati a entrare verso la fine del dibattito, c’è solo un passaggio che merita forse di essere ricordato, e cioè il suo elogio del multilateralismo. Questa l’argomentazione del presidente del Movimento 5 stelle, testualmente: «Non c’è altra soluzione, perché nell’era Trump si è tentato un approccio bilaterale, che non ha dato risultati, su cui ovviamente noi europei, tutti in Unione europea, siamo stati scettici». Parola di Giuseppi. L’uomo che in quel momento era talmente scettico da fare l’elogio del sovranismo persino all’assemblea generale dell’Onu.

Per quanto riguarda Letta, bisogna pur dire che le sue mosse si inseriscono in un’antica e consolidata tradizione: quella del segretario che si lamenta dello strapotere delle correnti e per affrancarsene prova a fare leva sulla retorica del rinnovamento e della società civile come modo di legittimare la costruzione della propria corrente e del proprio gruppo dirigente, se esterno allo stesso partito meglio ancora.

Va anche detto che i nomi degli «osservatori» scelti da Letta – dallo scrittore Gianrico Carofiglio alla vicepresidente della Regione Emilia Romagna Elly Schlein – appaiono di caratura superiore rispetto a quelli del Movimento 5 stelle, se non altro sul piano della notorietà. È comunque interessante il fatto che l’oggetto delle loro osservazioni sia un articolato processo di elaborazione di idee e proposte «dal basso», attraverso le cosiddette Agorà democratiche (assemblee in parte virtuali in parte reali, composte di iscritti e non iscritti).

Vedremo quale peso e quale ruolo effettivo avranno tali agorà, e chi vi prenderà parte, a cominciare ovviamente dagli osservatori, nell’elaborazione di programmi e proposte (e magari anche nella ridefinizione delle gerarchie interne, e magari anche delle liste elettorali). E se da questo processo semi-virtuale di democrazia partecipata, deliberativa, semidiretta o comunque lo si voglia chiamare, emergerà davvero un modo nuovo di fare politica. La retorica con cui viene presentato non appare nuovissima, ma posso confessare sinceramente di essere da sempre assai prevenuto verso questo genere di esperimenti (e il modo in cui sono sempre andati a finire obiettivamente non mi ha aiutato a liberarmi dei miei pregiudizi). Certo è curioso ascoltare questi discorsi da parte del Pd, proprio mentre Conte e i cinquestelle abbandonano la piattaforma Rousseau e ormai parlano solo di organismi dirigenti e vicepresidenti.

In ogni caso, non ci vorrà molto per capire se le Agorà lettiane riusciranno davvero a «far emergere un comune tessuto valoriale» e «una visione alta e altra» rispetto a quella della destra sovranista, come dice Elly Schlein, e ad evitare «lo spreco di idee che c’è tantissimo in giro», come dice Monica Frassoni, confermando l’importanza del fatto che, come sottolinea Carlo Cottarelli, «le idee vengano dal basso e non cadano dall’alto» (questo, in estrema sintesi, il succo del dibattito andato in onda ieri).

Sia come sia, dice Carofiglio di avere già imparato da questa esperienza, tra le altre cose, che la politica deve «contenere in sé un elemento di allegria». Probabilmente ha ragione. Ma se è così, la strada da fare sembra ancora lunga.

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