È escluso che si possa mai organizzare un tavolo attorno al quale siedano contemporaneamente Enrico Letta, Giuseppe Conte, Roberto Speranza, Matteo Renzi, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Con Mario Draghi a capotavola meno che mai. Una riunione per blindare una legge di bilancio – come dice Renzi – «che Draghi ha già fatto» e a pochi giorni dall’esame del Parlamento pur con le migliori intenzioni già si presentava in modo problematico, poi ora la questione ormai travalica gli aspetti politici per investire quelli personali dati che ieri ci ha pensato Conte a far saltare il tavolo con lo sdegnoso rifiuto di accettare il confronto tv proposto da Renzi («Non faccio show», ha detto evidentemente in dissenso da Rocco Casalino).
Ma il punto politicamente rilevante è un altro: il fatto è che da Palazzo Chigi è filtrato un certo disappunto per un formato che oltre a ricordare i riti della Prima Repubblica, quando i segretari dei partiti si riunivano con il presidente del Consiglio messo lì da loro, e la proposta di Letta è apparsa come una sgrammaticatura rispetto alla regola che Draghi ha condiviso sin qui con le forze di maggioranza che vede nella cabina di regia la sede deputata a questo tipo di confronti. In parole povere, il sospetto, come abbiamo scritto ieri, è che i partiti in qualche modo vogliano far sentire al presidente del Consiglio il fiato sul collo, tra l’altro in modo maldestro perché Letta ha dato la sensazione di legare il tavolo sulla legge di bilancio a una successiva riunione sulla elezione del Capo dello Stato. Ovvio che Draghi abbia strabuzzato gli occhi dinanzi a un metodo abbastanza inconcepibile essendo egli tra l’altro attore protagonista del romanzo Quirinale.
L’idea del tavolo dei segretari non è garbata nemmeno in diversi ambienti parlamentari, dove si è interpretata la proposta del segretario del Partito democratico come un’arma per espropriare (ulteriormente) Camera e Senato del diritto-dovere di correggere, e come, la manovra di bilancio. Persino la capogruppo al Senato del Pd Simona Malpezzi a un certo punto ha alluso a una più consona riunione dei capigruppo di maggioranza, come si fa sempre.
Può darsi che il segretario del Pd abbia peccato di un eccesso di costruttività ma è anche possibile spiegare la proposta del tavolo dei leader vista come occasione per rimarcare il protagonismo suo e del suo partito: e qui ci risiamo. C’è chi legge nelle ultime mosse di Letta un’ansia nel voler ripulire l’aria da tutto ciò che può ostacolare il bipolarismo che gli è caro, a partire dall’annientamento di Italia viva e del suo leader per finire alla pulizia interna relativamente ai cosiddetti ex renziani. Per questo il segretario del Pd, senza ovviamente dirlo, non si straccerebbe le vesti se si andasse a votare già nel 2022, leader assoluto del Nuovo Ulivo formato da Pd-Articolo Uno e Movimento 5 stelle, un Ulivetto (come venne chiamato l’Ulivo quando nel 2005 Romano Prodi ruppe con la Margherita di Francesco Rutelli) contro i sovranisti testa contro testa in una fortissima battaglia identitaria e persino ideale.
Siccome queste voci sono giunte anche a palazzo Chigi, non si fa torto a nessuno dicendo che tra Draghi e Letta questo non sia esattamente il momento di massima condivisione. E forse anche questa cornice spiega l’assai probabile fallimento del tavolo a cui nessuno vuole sedersi. È quella che quelli bravi chiamano eterogenesi dei fini: se Il segretario del Pd immaginava un tavolo dei leader per compattare la maggioranza, l’esito è quello opposto, questi non vogliono nemmeno parlarsi. E in questa confusione politica, Draghi va.