La Cop26 in corso a Glasgow, in Scozia, si avvia verso la fine. Quindi è ora che succederanno i fatti più rilevanti. Si sa perché il corso di questi summit è sempre quello: all’inizio proclami, conferenze, buoni propositi e lentezza, negli ultimi giorni invece arriva la fretta, gli accordi, le sorprese e cominciano a trapelare le prime notizie di risultati concreti.
Si potrebbe commentare che è scoraggiante che i leader del pianeta affrontino i giorni di un meeting così importante proprio come uno studente affronta lo studio per un esame: giorni e giorni di chiacchiere e poi ritmi forsennati poco prima della scadenza. Ma tant’è. Ora che a venerdì, cioè il giorno di chiusura dei lavori, mancano una manciata di ore, ci sono diverse novità. Vediamole una per una.
La prima sorpresa riguarda la Cina e gli Stati Uniti. Come scrivevamo qui su Linkiesta sono questi i due paesi più importanti per l’eventuale accordo che questa Cop partorirà. Sia per il ruolo politico dei due grandi paesi sia per la loro diretta responsabilità come inquinanti. Ebbene, senza che la stampa ne avesse colto le avvisaglie, i delegati di Washington e Pechino hanno presentato un accordo congiunto. La notizia è ottima, perché anche se l’accordo non prevede impegni troppo diversi da quelli già presi in passato, dimostra che la Cina ha intenzione di collaborare col resto della comunità internazionale sulla transizione verde nonostante i diverbi e le distanze con gli Stati Uniti.
In molti credevano il contrario, anche perché c’erano segnali che lo facevano intuire: il premier cinese Xi Jinping non ha partecipato di persona alla Cop26, la Cina non ha firmato l’impegno proposto da Unione Europea e Stati Uniti a ridurre del 30% le emissioni di metano entro il 2030 e non ha nemmeno firmato l’accordo sulla riduzione dell’uso del carbone. Questo accordo, quindi, manda un segnale opposto: la Cina dialoga con gli Stati Uniti e i due paesi hanno trovato un canale di dialogo e collaborazione.
La notizia dell’intesa tra USA e Cina fa ben sperare anche perché si avvicina l’ora in cui tutti i partecipanti alla Cop26 dovranno trovare un accordo finale, firmarlo e presentarlo pubblicamente. Inoltre il segnale mandato da Pechino è probabile che spingerà anche altri stati a cooperare e impegnarsi in questo senso.
Naturalmente il valore tra le due superpotenze è essenzialmente simbolico, senza obiettivi particolarmente ambiziosi o di carattere vincolante – è ciò che gli attivisti chiamerebbero “Bla, bla, bla” – ma ha valore nella misura in cui prevede l’impegno a ridurre gli investimenti sulle centrali a carbone e a mantenere le temperature sotto i +2° rispetto ai livelli preindustriali. Inoltre, Xie Zhenhua, cioè il più importante delegato cinese alla Cop26, ha detto che entrambi i paesi sono coscienti che il cambiamento climatico «è una questione di sopravvivenza».
La seconda novità, meno importante dell’accordo tra Cina e Stati Uniti ma comunque rilevante, è che è apparsa una prima bozza di accordo finale, cioè il documento che viene redatto alla fine di ogni Cop e che, tradizionalmente, viene firmato da tutti i delegati degli stati partecipanti. La bozza di accordo prevede diversi punti molto attesi, tra i quali la data del pagamento dei 100 miliardi destinati ai paesi in via di sviluppo e stanziati dei paesi più ricchi: il pagamento sarebbe già dovuto avvenire nel 2020, ma avverrà entro il 2023. La bozza mette anche nero su bianco, ed è la prima volta che accade, l’impegno collettivo per l’abbandono del carbone come fonte energetica, oltre allo stop completo alle sovvenzioni statali ai combustibili fossili.
Il documento, trapelato in sei pagine nella giornata di mercoledì, prevede anche un’importante riduzione delle emissioni di CO2, uno dei punti più importanti che è necessario affrontare per riuscire a rendere concreta la tanto discussa “transizione ecologica”. In particolare si legge che si prevede «un taglio del 45% delle emissioni, rispetto ai livelli del 2010» entro la fine del decennio; e raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050 (che non significa zero emissioni, ma che si emette tanta CO2 quanta la natura può assorbirne, non di più).
Ci sono diversi altri temi trattati nella bozza, dai metodi per rendicontare e verificare le emissioni dei vari paesi all’importanza degli oceani, ma viene fatto in modo vago e senza dettagli né concretezza. Ma, appunto, si tratta di una bozza. Il successo di questa Cop, se successo sarà, lo vedremo nell’accordo finale.
Una delle notizie più rilevanti delle scorse ore è anche tra le peggiori per la riuscita della Cop26. L’ha data il Washington Post che, in un’inchiesta portata avanti da sei suoi giornalisti in collaborazione con diversi laboratori indipendenti, ha studiato i report sulle emissioni delle 196 nazioni consegnati alle Nazioni Unite trovando enormi errori e omissioni. L’inchiesta ha messo in luce innanzitutto che i report, che dovrebbero essere annuali, vengono consegnati con grandi ritardi. Solo 45 nazioni su 196 hanno consegnato i dati aggiornati sulle proprie emissioni nel 2019, l’ultimo anno di cui si hanno informazioni dettagliate. La Cina, per esempio, non consegna i dati all’ONU dal 2014. L’Iran non lo fa dal 2010, cioè da 11 anni. Eppure l’Iran è tra i principali responsabili al mondo per l’emissione in atmosfera di gas serra. Gli esempi sul Washington Post proseguono: il Qatar, nonostante la sua importante produzione di gas e petrolio, non trasmette i dati dal 2007. L’Algeria, altro grande produttore di combustibili fossili, dal 2000.
Oltre l’assenza dei dati, scrivono i giornalisti statunitensi, c’è una questione di completezza dei dati stessi. In altre parole gli stati trasmettono dati sulle proprie emissioni sottostimandole sistematicamente e per farlo dichiarano il falso.
Il Washington Post ha creato un modello matematico per stimare le emissioni di tutti i 148 paesi che nel 2019 non avevano ancora trasmesso i propri dati, e ha scoperto che la situazione globale è decisamente peggiore di quanto non dicano i dati ufficiali. I miliardi di tonnellate di gas serra emessi ogni anno in atmosfera non sono 42, ma 57. In parte, argomentano i firmatari dell’inchiesta, questo gap si deve ad assurdità burocratiche, come il fatto che nessun paese si assume la responsabilità di considerare come proprie le emissioni dovute ai trasporti aerei o marittimi (eppure ammontano a oltre 1 miliardo di tonnellate di CO2 all’anno). Il resto della differenza, però, viene dal semplice fatto che i dati sono falsati (“flawed” è il termine inglese usato nell’inchiesta). E stiamo parlando degli stessi dati di cui si discute in queste ore a Glasgow.