Dopo il Papeete qualcuno non ha creduto che il ciampolillismo potesse diventare un’alternativa democraticamente preferibile al grillismo. E invece lo è diventato. Non certo grazie al titolare del marchio, Ciampolillo sen. Lello, ma al sublime talento trasformistico di Conte, Prof. Giuseppe e di Di Maio, on. Luigi e alla generosa disponibilità del Partito democratico. Allo stesso modo, qualcuno mosso da analogo e razionale pregiudizio dovrebbe dubitare oggi che una Lega buona ed europeista possa essere messa al mondo per partenogenesi dalla Lega cattiva e sovranista.
Davvero si può credere che a rettificare la rotta nazionalista e alt right della Lega salviniana possano essere le prime e le seconde file della stessa Lega e della FI leghistizzata: le stesse facce, gli stessi nomi e le stesse idee, ma in doppiopetto e senza felpa, e con un senso più prudente dell’opportunità e della convenienza?
Senza fare processi e torti alle intenzioni di Giancarlo Giorgetti, che è persona sicuramente competente e accorta, la storia politica leghista dalla fine degli anni ’80 a oggi è sempre stata un’ammuina di ribellismo e territorialismo, che, al variare della strategia – il federalismo, la secessione, l’autonomia fiscale – e al mutare del nemico – Roma ladrona o la “dittatura di Bruxelles”, i terroni domestici (i ‘napuli) e i terroni globali (gli immigrati) – non ha mai rinunciato a un tratto identitario di istanze discriminatorie e retoriche vittimistiche.
Il cosiddetto buongoverno leghista e il vasto consenso raccolto per anni dal Carroccio nel nord non metropolitano ha sempre riflettuto una capacità di insediamento neo-partitocratica e di egemonia culturale, più che gli strabilianti risultati di un modello di efficienza. La Lega del nord est come la sinistra tosco-emiliana ha un monopolio politico legato alla sua capacità di farsi Stato e diventare consustanziale al funzionamento delle istituzioni e dell’economia locale, ma dai tempi di Bossi a quelli di Salvini ha sempre seguito i leader nazionali nelle loro guerre e nelle loro follie, aggiungendo un po’ di chiacchiere produttivistiche alla vulgata di un partito che della questione settentrionale e della subalternità fiscale del Nord ha costituito la malattia opportunistica, e non certo la cura.
Si è compiuta prestissimo la trasmutazione del centro-destra liberale vagheggiato da Berlusconi in una destra nazionalista, protezionista, antieuropea e perennemente in vedetta per cercare fuori di sé il nemico che aveva invece dentro di sé: al volgere del nuovo millennio, proprio con l’affermazione tra le fila di Forza Italia di un’egemonia culturale di stampo leghista, interpretata in modo colto ed evoluto da Giulio Tremonti, che liquidava il mercatismo come un nuovo marxismo e l’europeismo come una forma di servitù politica volontaria.
La nazionalizzazione del territorialismo leghista è stato un progetto geniale e di grande successo, ma senza vere rotture di continuità con la cultura precedente. Conta assai poco che con Salvini non siano più i meridionali, ma gli africani a «rubarci il lavoro» e la terra sì bella e perduta da sottrarre al giogo straniero non sia più la Padania, ma l’Italia intera. Conta il fatto che a essere stato universalizzato sia lo stesso antagonistico e minaccioso particolarismo identitario, che dai tempi di Bossi è il mai derogato filo rosso della strategia leghista. Perfino gli innamoramenti anti-americani (e quindi trumpiani) e filo-russi di Salvini hanno un precedente negli anatemi bossiani contro i «banchieri e massoni» statunitensi per gli interventi militari alleati contro Slobodan Milosevic e Mu’ammar Gheddafi.
Insomma, non c’è una Lega buona verso cui tornare e da resuscitare, per arginare derive sovraniste che sono da sempre il DNA leghista e a cui si deve la vera e propria capitolazione del berlusconismo: di quello politico, come, ahimè, pure di quello culturale e mediatico. Se qualcuno davvero pensa a un centro-destra diverso e affrancato dal dominio degli amici di Orban e Le Pen deve fare qualcosa di ben più complicato di un’operazione di maquillage e di accreditamento euro-atlantico. Deve riconquistare, anzi riabilitare un elettorato drogato dalla cocaina sovranista. Ma deve (per usare una metafora gradita nell’ambiente) portarlo in comunità terapeutica, evitando di ingaggiare come educatori gli ex spacciatori di crack nazionalista e gli aspiranti anti-salviniani del 26 aprile.