Non c’è niente di nuovo oggi nell’aria. Ancora una volta, alla fine di un giro immenso, tutti si sono scambiati i ruoli e il copione è rimasto intatto: Matteo Renzi si è fatto il piccolo partito che mette i veti, grillini e sinistra rivoluzionaria hanno fatto il loro patto sottobanco con un pezzo di Forza Italia per tenere in piedi il governo e Paola Binetti, dopo un lungo e ingiusto ostracismo, è pronta per tornare là dove è giusto che stia: sotto i riflettori, davanti a microfoni e taccuini, a dettare titoli e interviste di qui alla fine della legislatura.
Nel generale parapiglia, Lello Ciampolillo e Riccardo Nencini per poco non si dimenticavano di votare e Maria Rosaria Rossi, per anni bollata dalla stampa come la «badante», è già pronta a diventare la Dolores Ibárruri della nuova pseudo-maggioranza, la vera pasionaria del forzacontismo. Insomma, le solite cose.
L’unica vera novità sarebbe, e non sembri una battuta, il proporzionale. Non sarebbe male, infatti, se tutta questa interminabile agonia, cominciata all’inizio degli anni novanta con la distruzione dei partiti storici in nome della rivoluzione maggioritaria e della democrazia governante, come risposta di sistema alla delegittimazione della politica per via giornalistico-giudiziaria, si concludesse con una vera legge elettorale proporzionale, cioè senza coalizioni pre-elettorali (niente apparentamenti, niente premi di maggioranza, niente trucchi). Dunque con ciascun partito che torna a presentarsi come tale davanti agli elettori, con il suo programma, i suoi candidati, il suo simbolo.
Personalmente sostengo da molti anni – e ho scritto fin troppe volte anche qui, motivo per cui non mi dilungo nell’argomentare – che il meccanismo delle coalizioni pre-elettorali e tutto quel che vi si è accompagnato ha contribuito a togliere ogni senso e funzione ai partiti. Ma guardando lo spettacolo di questi anni, e specialmente di questi ultimissimi anni, comincio a temere che non sia tanto facile rimettere il dentifricio nel tubetto. Che anche il senso delle proprie scelte e delle proprie parole, una volta spremuto fuori e sparpagliato indistintamente per l’intero arco parlamentare, non possa essere rimesso insieme tanto facilmente.
Nel frattempo, le coalizioni di governo promettono di continuare a produrre la consueta giostra di ingressi e uscite, unificazioni e scissioni, che ha caratterizzato il nostro sistema dai referendum maggioritari del 1993 in avanti. L’unico leader capace di governare questo caos – sebbene pressoché esclusivamente a suo personale vantaggio – è stato Silvio Berlusconi, e solo perché godeva di cospicue risorse extra-politiche, che facevano di Forza Italia (poi Pdl, poi di nuovo Forza Italia, perché la forza centrifuga del sistema alla lunga era irresistibile anche per lui) l’unico blocco di consenso non completamente biodegradabile. Tutto il resto, è stato ed è un pulviscolo di formazioni che si scindono e si ricompongono nelle forme più diverse e opposte, tanto che farne la storia sarebbe praticamente impossibile. Sarebbe come pretendere di riassumere la trama di 8442 puntate di Beautiful. Servirebbe qualcosa di simile alla carta geografica in scala 1:1 di quel famoso frammento di Borges, che ricopriva l’intero paese come un lenzuolo.
Anche il clamoroso ritorno di Paola Binetti, proprio quando il pubblico aveva appena cominciato ad affezionarsi ai nuovi protagonisti, rappresenta un classico del genere. Perché la morfologia della telenovela è sempre la stessa: struttura circolare, o per meglio dire a spirale, in cui l’inizio è sempre superato all’indietro e la fine ritorna sempre all’inizio, nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si ripete.