Sentirsi italiani senza esserlo
Dall’indagine dell’Istat emerge che la sospensione dell’identità, in linea con quanto sostenuto in letteratura, interessa una quota rilevante di ragazzi stranieri che vivono nel nostro paese e frequentano la scuola secondaria di primo o di secondo grado.
Gli intervistati stranieri che si sentono italiani sono circa il 38%, mentre il 33% si sente straniero e poco più del 29% non sa rispondere. Nella percezione dell’appartenenza gioca un ruolo non secondario la generazione migratoria. Per i nati in Italia, la quota di chi si sente straniero si riduce al 23,7%, mentre sale al 47,5% quella di coloro che si percepiscono italiani.
Valori simili a quelli riscontrati per i nati in Italia si osservano anche per i nati all’estero purché arrivati prima dei 6 anni. Tra i ragazzi arrivati dopo i 10 anni, si sente straniero più di uno su due (quasi il 53%), mentre solo il 17% si sente italiano. Per tutte le generazioni migratorie, la «sospensione» dell’identità riguarda oltre un quarto dei ragazzi. La quota di indecisi è più elevata tra i nati all’estero entrati tra i 6 e i 10 anni (31,2%), ma anche per i nati in Italia la proporzione sfiora il 29%.
Dal punto di vista della riflessione relativa alle norme sulla cittadinanza, questi dati aiutano a capire come sia evidente che l’atteggiamento di chi nasce in Italia o vi risiede dai primissimi anni di vita sia molto differente rispetto a quello di chi arriva già adolescente. Si tratta quindi di elementi sicuramente a favore di proposte che tengano conto dello ius soli seppure in maniera «temperata».
Così come è evidente che per le seconde generazioni intese in senso ampio è importante la possibilità di mantenere la doppia cittadinanza, che potrebbe consentire quantomeno ad alcuni di quelli che rispondono «non so» di trovare una collocazione che li faccia sentire a loro agio.
Non è possibile essere più netti nelle affermazioni alla luce delle informazioni disponibili. Infatti, l’indagine dell’Istat non consente purtroppo di tenere in considerazione chi si sente sia italiano, sia di un’altra cittadinanza, visto che chiedeva di prendere una decisione netta scegliendo la condizione/percezione prevalente. Allo stesso modo la rilevazione non consente di misurare il senso di appartenenza rispetto alla collettività di origine perché le modalità di risposta al quesito «Ti senti di più?» prevedono solo «italiano», «straniero» e «non so». Nessuna modalità tra quelle proposte consente quindi di cogliere se ci sia nel rispondente un forte senso di appartenenza a una particolare collettività: forse un ragazzo filippino avrebbe scelto volentieri la modalità «filippino» se ci fosse stata. Ricordiamo infatti che alcune collettività hanno in Italia una forte rete di legami molto radicata e sviluppata sul territorio, anche per quanto riguarda i giovani di seconda generazione.
Allo stesso tempo, nell’interpretazione dei dati si deve anche tenere conto che la normativa vigente non è priva di influenze sul senso di appartenenza. Se la legge non mi dà la possibilità di essere italiano è più facile che comunque finisca per sentirmi straniero. Un mutamento della normativa che ampliasse e accelerasse i tempi dell’acquisizione della cittadinanza potrebbe sicuramente incidere anche sull’autopercezione.
Al di là della condizione effettiva, sapere di poter diventare più facilmente italiani potrebbe rafforzare il «sentirsi italiani». È tra alcuni gruppi asiatici e latinoamericani che si registrano le quote più alte di ragazzi che si sentono stranieri: 42,1% tra i cinesi, 39,5% tra gli ecuadoriani, 38,9% tra i peruviani e 38,4% tra i filippini.
Nel caso dei cittadini cinesi, filippini ed ecuadoriani, anche tra i nati in Italia sono pochi coloro che si sentono italiani. Al contrario, tra i romeni la quota di chi si sente italiano è particolarmente elevata (45,8%), anche a fronte di un numero contenuto di acquisizioni di cittadinanza registrato dai dati amministrativi.
Per un ragazzo comunitario sentirsi nei fatti italiano, cioè al di là dell’acquisizione formale della cittadinanza che interessa meno a chi viene da un paese dell’Unione, può essere comunque più facile per una serie di elementi culturali condivisi. Si potrebbe ipotizzare anche un ruolo giocato dalla diversità fisica (colore della pelle, tratti somatici ecc.), ma non sembra vero per tutte le origini.
Infatti, il gruppo non europeo con la quota più elevata di giovani che si sentono italiani è quello marocchino (36%). Si deve però sottolineare che la stessa indagine mette in evidenza che si tratta di una collettività tra quelle con le più frequenti interazioni con gli italiani: tra i nati in Italia la quota di coloro che frequentano italiani arriva quasi all’82% e quella di chi afferma di parlare molto bene l’italiano sfiora il 73%.
Inoltre il fatto che molti ragazzi di origine marocchina abbiano ottenuto la cittadinanza italiana può portare più facilmente gli altri ragazzi di questo gruppo a sentire «vicina» la cittadinanza del nostro paese.
da “Nuovi cittadini. Diventare italiani nell’era della globalizzazione”, di Salvatore Strozza, Cinzia Conti, Enrico Tucci, Il Mulino, 2021, pagine 192, euro 18