Venti ore di lievitazione e nove gusti diversi, l’ultimo arrivato è gianduia e amarena. Ma c’è anche quello al moscato Kabir oppure fichi e cioccolato. Uno dei migliori panettoni artigianali italiani viene prodotto in carcere. Premiato dal Gambero Rosso, mangiato da Papa Francesco. Lo ordinano le grandi aziende e si vende in 240 negozi, anche all’estero.
Prima di arrivare sugli scaffali però, il dolce natalizio deve superare cancelli di ferro e metal detector. Siamo a Padova, nella casa di reclusione Due Palazzi. Un casermone grigio con le sbarre rosse che ospita 500 detenuti condannati in via definitiva. Qui nel 2005 la cooperativa Work Crossing ha deciso di trasferire il suo laboratorio di alta pasticceria. Così è nata Giotto.
«Ci siamo buttati», racconta il presidente Matteo Marchetto. «Decidemmo di puntare su prodotti artigianali di altissima qualità. Abbiamo offerto un lavoro vero ai detenuti, con regolare contratto. La nostra non era un’iniziativa di assistenzialismo, dovevamo stare sul mercato e confrontarci con la concorrenza». Le paure erano molte. La diffidenza dei clienti, in primis. La difficoltà di lavorare dietro le sbarre, con la burocrazia e gli ostacoli che ne conseguono. Oltre alla formazione di lavoratori che, inevitabilmente, partono da condizioni difficili.
Dopo diciassette anni e decine di migliaia di panettoni, la scommessa può dirsi vinta. Oggi alla pasticceria Giotto lavorano 46 detenuti coordinati da quattro maestri pasticceri. Sfornano biscotti, torte, gelati, focacce e colombe. Si fa tutto dietro le sbarre: produzione, confezionamento e logistica. «Lo studio su alcuni prodotti dura mesi, se non anni», racconta il capo-pasticcere Matteo Concolato, che ogni giorno varca le soglie del Due Palazzi. Tutto parte dalla scelta maniacale delle materie prime. «Quest’estate ho assaggiato dieci tipi di burro e sei varietà di canditi, prima di scegliere quelli giusti».
Tra macchinari pulitissimi e citazioni letterarie sui muri, non sembra di stare in carcere. «Quando sei qui dimentichi di essere in galera», racconta Mario, 56 anni di cui 14 passati nella pasticceria di Giotto. «Ero stato trasferito nel 2001 al carcere di Padova, quando ho iniziato a lavorare non sapevo nulla di pasticceria. La bellezza di questo mestiere sta nel fatto che crei con le tue mani e vedi il risultato del tuo lavoro». Qui le barriere umane e carcerarie si abbattono. Ci sono ergastolani, uomini condannati a pene lunghissime. Capita che, tra una sac à poche e una spatola, il boss debba imparare il mestiere da uno scippatore. Si maneggiano coltelli, si instaurano rapporti di fiducia. «Un miracolo», per dirla con le parole del presidente Marchetto. «Quello che mi ha colpito – spiega il maestro pasticcere Matteo Concolato – è vedere quanto queste persone si appassionino, si sentano protagoniste e responsabili del lavoro che fanno».
La sfida dell’alta qualità, prima di essere accettata, dev’essere compresa dai detenuti. «Una delle cose più faticose – racconta Concolato – è stata far capire che alcuni prodotti andavano scartati perché non rispondevano al criterio estetico o perché il gusto non era ottimale. Per molti di loro, che magari non avevano mai assaggiato quel tipo di dolci, era un fatto strano». Nulla è dato per scontato, nel mondo chiuso della prigione. Nemmeno i premi ricevuti in questi anni e le fiere del settore in cui è sbarcata la pasticceria Giotto.
I detenuti, selezionati dopo una serie di colloqui, fanno un tirocinio di sei mesi per imparare il mestiere. Poi, se tutto va bene, vengono assunti a tempo indeterminato con un contratto collettivo nazionale. E uno stipendio vero che consente di mandare i soldi a casa. «Questo è un passaggio fondamentale per loro che, invece di essere considerati un peso, possono aiutare le proprie famiglie», spiega il presidente di Work Crossing Marchetto. «Qualche tempo fa il figlio di un detenuto aveva appeso nella sua cameretta, accanto al poster di Ronaldo, la prima busta paga del papà pasticcere». Per molti lo stipendio mensile era qualcosa di sconosciuto nella vita precedente. Il primo vero impiego con regole e orari. Spesso l’opportunità di lavorare in prigione innesca una rivoluzione. Lo racconta Mario, che a Padova sta scontando la sua pena: «Sono grato per quest’occasione, ho imparato un mestiere e mi sento utile. In carcere senza far nulla guardi il soffitto e ti incattivisci. La maggioranza delle persone che accetta la sfida del lavoro cambia la sua vita».
Al Due Palazzi oltre 200 detenuti hanno sfornato dolci in questi anni. C’è chi, una volta uscito, ha aperto una pasticceria. In molti hanno cominciato a lavorare nel settore della ristorazione. «La più grande soddisfazione è vedere la trasformazione da mani che facevano del male a mani che fanno qualcosa di buono», dice il presidente di Work Crossing Marchetto.
Il lieto fine non è quello che ci si aspetterebbe. Il lavoro in carcere rappresenta uno dei pilastri della rieducazione dei condannati e un investimento sulla sicurezza del Paese. Abbatte la recidiva dal 70 al 5 per cento e fa risparmiare un mucchio di soldi allo Stato: ogni punto di recidiva guadagnato corrisponde a 40 milioni di euro. Eppure, oggi in Italia solo il 4 per cento dei detenuti lavora per imprese o cooperative. Una percentuale minima. Nonostante il successo di esperienze come quella di Giotto.