Abituati a 27 anni di un bipolarismo così così, che oggi si identifica come bipopulismo, facciamo tutti fatica a pensare che si possa fare politica fuori dai due blocchi. Per questo la proposta di un nuovo centro, il cuore politico del discorso politico di Matteo Renzi alla Leopolda dell’Orgoglio – la numero 11 – lascia un po’ freddi. Perplessi. Ma dove va, da solo?
Domanda legittima che, sceso Renzi dal palco dopo uno dei suoi discorsi “leopoldini” sempre accalorati, i cronisti si pongono e pongono agli interlocutori. Dove va, Italia viva? Dove si fa, questa «nuova casa» di cui ha parlato Ettore Rosato, una volta constatato che quella di prima, «l’hanno ridotta una baracca, l’hanno distrutta»? Con chi? C’è lo spazio per una nuova casa, o una nuova “Cosa” politica?
Renzi è sicuro di sì, al di là degli accordicchi e delle manovre. Intanto alla Lepolda c’erano Beppe Sala, Enrico Costa di Azione, Benedetto Della Vedova di +Europa. La parola “centro” gli fa venire «l’orticaria» se presentata come mossa politicista ma non se pensata come «spazio» da conquistare per vincere: come Olaf Scholz ha fatto in Germania, andando a prendersi i voti della Merkel e come hanno intuito Emmanuel Macron, ormai stella polare del renzismo, e persino Joe Biden negli Stati Uniti, seppure con la fatica che sappiamo. Tutto questo non è una novità nel renzismo.
Quasi otto anni fa, nella prefazione alla nuova edizione del libro fondamentale di Norberto Bobbio “Destra e sinistra” l’allora segretario del Pd scriveva: «Di fronte a questo potente mutamento di prospettiva sociale ed economica, culturale e politica, la sinistra deve mostrare di avere coraggio e non tradire se stessa. Deve accettare di vivere il costante movimento dei tempi presenti e accoglierlo come una benedizione e non come un intralcio. È questo straordinario, irrefrenabile movimento che sfonda la vecchia bidimensionalità della diade destra/sinistra e le dà temporalità e nuova forza. E invece spesso, in Italia e in Europa, la sinistra ne ha paura».
Ecco, oggi Renzi è giunto alla conclusione che il Pd si sia definitivamente ritratto dinanzi alle “cose nuove” preferendo la regressione populista. Dagli uomini del Nazareno «ubriacati dal beppegrillismo» non viene nulla di buono, e magari è a loro che Matteo pensa quando, cattivo, dice che «solo chi striscia non cade», una replica dei «silenzi vigliacchi» a proposito della mancata solidarietà (Irene Tinagli a parte) sulla vicenda Open.
Ecco perché l’idea di una “Cosa nuova” nel solco della esperienza europea di Renew Europe (che però non cita) e del macronismo, ricorda il monito che anni fa, durante una delle tante polemiche interne al Pd – era segretario Pier Luigi Bersani – pronunciò Paolo Gentiloni: «C’è il rischio che dovremo andare a fare il Pd da un’altra parte». E in effetti sia nel discorso di Renzi, sia in quelli per esempio delle tre “B” molto acclamate (Maria Elena Boschi, Elena Bonetti e Teresa Bellanova), l’attacco non è al Pd in sé ma a quello che il Pd è diventato, fino all’abbraccio con l’uomo politico che forse più di tutti Renzi disprezza, e cioè Giuseppe Conte. L’intesa con il suo ex partito è quindi impossibile. Probabile che sia una rottura che farà piacere forse anche a Enrico Letta, di certo a esponenti come Peppe Provenzano, Andrea Orlando, Goffredo Bettini: se lo sono levato di torno senza sforzo. Perché è indubbio che il cordone ombelicale si sia rotto.
Il capo di Iv è sicuro che lo spazio per una nuova avventura vi sia, ma non c’è dubbio che Italia viva debba ancora lavorare molto perché per ora è uno spazio che si definisce per negazione: né con il Pd che abbraccia il populismo di Giuseppe Conte né con Giorgia Meloni che è più a destra di Marine Le Pen (e Matteo Salvini che resta coi sovranisti invece di puntare al Ppe). Il “né né” di solito non ha mai portato bene, da Mario Segni a Gianfranco Fini. Ma la notizia c’è (altro che Leopolda minore, come ha detto subito qualcuno). La notizia è la sostanziale fuoriuscita di Renzi da un centrosinistra che peraltro – e su questo ha ragione da vendere – ha modificato le sue caratteristiche originarie e si presenta oggi come la somma di un Pd modello “Ditta” più il M5s populista di Conte.
Evidentemente il leader di Italia viva non ritiene che sussistano le condizioni per un’intesa organica con questo “Ulivetto” Letta-Conte e nemmeno quelle per condizionarlo dall’interno, il che non preclude accordi specifici in Parlamento e nel Paese. Ma insomma nulla è più scontato. Diranno che Renzi è andato a destra, ma non è vero. Come del tutto fuori misura è la lettura di un Renzi che va con la destra, perché egli pensa a un nuovo centro, quanto largo si vedrà.
E forse si vedrà presto. Addirittura Renzi ha ipotizzato una data per le elezioni anticipate, giugno 2022. Se lo abbia fatto per scaldare il motore della sua piccola macchina da corsa oppure per spaventare i parlamentari di tutte le forze politiche invitandoli senza dirlo a fare i bravi e a lasciar proseguire Mario Draghi, questo non è chiaro. Può darsi entrambe le cose. Ma certo la nuova evocazione delle urne segnala il grado di sfilacciamento dei rapporti tra i partiti che dovrebbero essere alleati, sospettando tra l’altro che vi siano «convenienze personali» che alcuni leader potrebbero avere andando ad elezioni l’anno prossimo, per esempio per rinnovare i gruppi parlamentari («portare in Parlamento il suo gruppo di riferimento»): a Letta saranno fischiate le orecchie.