Alla fine del consiglio di amministrazione convocato con urgenza per discutere della manifestazione d’interesse «amichevole» da parte di Kkr, Telecom Italia ha annunciato che il fondo americano ha palesato la volontà di promuovere un’offerta pubblica di acquisto non ancora finanziata e non vincolante, al prezzo «indicativo» di 0,505 euro. Il ministero del Tesoro in una nota ha precisato che «il governo prende atto dell’interesse manifestato da investitori istituzionali qualificati», una «notizia positiva per il Paese» di cui «seguirà gli sviluppi», valutando «attentamente, anche riguardo all’esercizio delle proprie prerogative, i progetti che interessino l’infrastruttura». Se poi l’interesse di Kkr «dovesse concretizzarsi, sarà in primo luogo il mercato a valutarlo».
La «vigilanza attiva» sulla partita di cui si parla a Palazzo Chigi, spiega Repubblica, consiste in due paletti: difesa della strategicità della rete di telecomunicazione e salvaguardia dei livelli occupazionali. Il governo non ha chiuso le porte all’investimento straniero, anzi. E ha separato il campo del mercato da quello del regolatore. Ma vuole esercitare, appunto, una «vigilanza attiva».
E sul dossier esprime le sue preoccupazioni anche il leader della Cgil Maurizio Landini in un’intervista a Repubblica. «In un settore strategico come quello delle telecomunicazioni lo Stato italiano non può subire semplicemente la logica del mercato. Serve un piano industriale finalizzato alla costruzione della rete unica senza escludere il ricorso al golden power se il progetto di Kkr dovesse essere in contrasto con l’interesse industriale e occupazionale del Paese», dice il segretario generale.
Da tempo, spiega il sindacalista, «chiediamo che l’Italia si doti di una rete unica di nuova generazione che sia in grado di connettere il territorio, ma tutto è in grave ritardo. Si pone, davvero, un problema di strategia industriale; si tratta di capire quale ruolo vuole giocare il governo, compreso il ricorso alle prerogative che la legge prevede in caso di acquisizioni da parte di soggetti stranieri di aziende strategiche». Secondo Landini, Palazzo Chigi «deve esercitare un’azione di indirizzo funzionale agli interessi industriali e occupazionali nazionali».
Il rischio che «va scongiurato», spiega, è quello dello spezzatino: da una parte la rete, dall’altra i servizi, con inevitabili tagli al personale: «Serve una visione d’insieme. La rete è oggi l’infrastruttura tecnologica più importante per il Paese ed è la base sulla quale poggiare la trasformazione del nostro sistema manifatturiero nazionale. Riguarda tutti i settori, ad esempio: automotive, cemento, acciaio, chimica, vetro, carta. Questo è un tema strategico decisivo. La costruzione di una rete nazionale di nuova generazione rappresenta il volano per lo sviluppo industriale digitale. Per questo proponiamo la costituzione di un’Agenzia nazionale per lo sviluppo industriale e di convogliare tutti i fondi per gli investimenti nei vari settori, compresi quelli previsti nella legge di Bilancio, in un unico grande Fondo speciale per la transizione industriale. Due operazioni propedeutiche a eventuali alleanze e investimenti internazionali. Non possiamo continuare a dire che siamo il secondo Paese manifatturiero europeo e poi non abbiamo una strategia all’altezza, cioè in grado di gestire la transizione digitale ed ambientale».
Landini rilancia l’idea dello Stato protagonista nell’economia. «Il mercato lasciato libero non funziona. Serve un’idea di indirizzo e di volontà pubblica. Abbiamo visto tutti cosa ha significato privatizzare male un’azienda come Telecom», dice. E ritorna a proporre la costituzione di un’Agenzia nazionale per lo sviluppo industriale e di un Fondo speciale per la transizione industriale. Una nuova Iri, in pratica. «Non ho paura delle parole, cerchiamo però di risolvere i problemi perché stiamo pagando ora oltre vent’anni di assenza di politica industriale. Invece è di questa che abbiamo urgente bisogno», spiega. «L’Iri ha svolto un ruolo per lo sviluppo industriale del nostro Paese. La storia non si ripete. Ma penso a quello che può servire; penso, ad esempio, al ruolo della Cdp, la Cassa depositi e prestiti, che, tra l’altro, è già azionista sia di Tim sia di OpenFiber entrambe impegnate nella costruzione delle rete di nuova generazione. Quel che voglio dire è che è necessaria una visione complessiva, e l’apertura di un confronto con il mondo del lavoro, nelle telecomunicazioni, come nell’automotive, nella difesa, nel settore delle energie rinnovabile, nella chimica e via dicendo».
E davanti ai 5,5 milioni di lavoratori italiani con un reddito sotto i 10mila euro lordi l’anno, propone «un nuovo contratto unico per l’ingresso al lavoro a forte contenuto formativo. Basta con i contratti a chiamata, con le collaborazioni occasionali, con i tirocini extracurriculari! Nell’era digitale, se vogliamo entrarci, serve lavoro stabile e formazione permanente. Ma basta anche con i salari così bassi. C’è un altro virus che dobbiamo combattere, quello della “pandemia salariale”». Per questo chiede al governo di destinare tutti al lavoro gli 8 miliardi per la riduzione delle tasse: «Dopo avere destinato 185 miliardi alle imprese, compresi i sostegni nella fase Covid, ora è il momento di pensare ai lavoratori e ai pensionati»