La parità di genere nel mondo del lavoro è uno degli obiettivi del Millennio, secondo le Nazioni Unite. Ma la strada da percorrere per raggiungere il traguardo è ancora lunga.
Seppure negli ultimi anni siano stati fatti passi avanti, a ricordarci quanto cammino ci sia ancora da fare sono i numeri. Secondo il World Economic Forum, il gender gap sarà colmato solo tra 267 anni, oltre due secoli in pratica. In Europa la previsione si ferma a circa 60 anni, ma il Covid-19 ha interrotto questo trend positivo. Serviranno insomma ancora molti più sforzi per colmarlo.
Lo dimostra la ricerca “Women in charge”, condotta da Badenoch + Clark in collaborazione con JobPricing, sul percorso nel mercato del lavoro delle donne manager nel mondo e in Italia.
«Essere una donna al comando ancora oggi fa notizia», ha spiegato Deborah Buttignol, Senior Principal di Badenoch + Clark Executive, durante l’evento “Women in Charge. La nuova prospettiva per costruire una leadership femminile vincente nelle imprese”, moderato dal direttore di Fortune Italia Fabio Insenga.
La ricerca
Il primo dato che emerge dallo studio è che le donne hanno a che fare con due tipi di segregazioni. La prima è di tipo verticale. Per capirla, dobbiamo immaginare una scala da risalire. Nel corso dell’avanzamento di carriera, le donne devono vedersela in primis con gli sticky floor, ovvero i “pavimenti appiccicosi”, «quelle situazioni per cui faticano ad avanzare da posizioni entry level», ha spiegato Buttignol. Sono gli ostacoli e i pregiudizi che generano a loro volta le leaky pipeline, “i tubi che perdono”, metafora che allude alle occasioni di carriera perse o addirittura all’abbandono di una certa professione. Fino a scontrarsi con il glass ceiling, il “soffitto di cristallo”, quello che impedisce le promozioni, facendo sì che le donne non arrivino ai vertici delle organizzazioni. Senza dimenticare il fenomeno per cui le donne vengono scelte spesso per ricoprire posizioni apicali «quando sono in corso situazioni molto difficili, periodi di crisi o recessioni». È il cosiddetto glass cliff, ovvero la “scogliera di cristallo”.
Accanto alla segregazione verticale, ce n’è poi una orizzontale, per cui «le donne che sono assenti in alcuni settori merceologici» presidiati quasi esclusivamente dagli uomini, ha spiegato Buttignol. È la classica distinzione tra i lavori per donne e i lavori per uomini, che non ha alcuna base scientifica.
Ma il gender gap non è omogeneo. La ricerca mostra infatti come nell’istruzione e nell’ambito della salute ci sia quasi la totale parità di genere, mentre c’è ancora molta strada da fare nella partecipazione economica e soprattutto in quella politica. Oggi le donne sono il 39% della forza lavoro globale. Ma se si guarda alla presenza nel management, la percentuale scende al 33%, in Italia addirittura al 28%. E il gender pay gap globale, ovvero la differenza nelle retribuzioni salariali tra uomo e donna, è ancora al 37%.
Le donne «non sono solo poche, ma sono anche meno pagate», ha spiegato Buttignol. E il gender pay gap è diverso tra le società non quotate e quelle quotate. Nelle prime, il gap salariale tra i dirigenti uomini e le dirigenti donne si ferma all’8,5%. Nelle quotate, si arriva addirittura al 77%. Se la donna riceve uno stipendio di poco più di 426mila euro, l’uomo supera i 754mila euro.
In questi anni, la legge Golfo-Mosca sulle presenze femminili nei board delle aziende è servita a migliorare la situazione, raddoppiando la presenza tra il 2004 e il 2020. Ma non basta. «La presenza è migliorata più nella forma che nella sostanza», ha commentato Buttignol. «Solo il 2% delle donne nei board è un ceo. Quando le manager arrivano ai vertici, diventano per lo più esperte di risorse umane, di marketing e comunicazione o di affari legali». Molte sono anche presidenti, ma le amministratrici delegate sono poche.
Gli ostacoli da eliminare
Cosa fare? «L’accelerazione nelle posizioni apicali degli ultimi anni non basta», ha spiegato Monica Magri, Hr & Organization Director di The Adecco Group, intervenuta durante l’evento. «Per evitare la discriminazione, si deve lavorare soprattutto sul momento dell’ingresso nel mondo del lavoro, che spesso coincide con quello in cui una donna crea una famiglia. Ma se non riesci ad affermarti in questa fase, diventa un problema, si crea una continua rincorsa. È qui che è necessario il supporto del welfare».
Secondo Raffaella Sadun, docente di Business Administration all’Harvard Business School, ci sono anche altre questioni da risolvere. «L’avanzamento delle donne nelle posizioni apicali dipende spesso anche dal fatto che il design di alcuni lavori richiede la presenza e la disponibilità costante 24 ore al giorno, rendendo difficile la conciliazione con la vita privata», ha spiegato la professoressa. «Nelle realtà che hanno ripensato la struttura del lavoro, si vedono non a caso più donne nelle posizioni apicali».
Inoltre, la modalità di lavoro in team, prevalente in molte aziende, non aiuta. «È svantaggiosa perché non permette ai singoli individui di mostrare il valore del proprio lavoro», ha detto Sadun. «E le donne, anche le più giovani e promettenti, rischiano di essere penalizzate in un mondo che è dominato da bias culturali».
Un dato importante che emerge dalla ricerca è che oggi le donne manager sono più giovani, lasciando quindi sperare che «tra dieci anni lo scenario sarà molto diverso», dice Buttignol. Anche perché parliamo di donne che, rispetto agli uomini, hanno investito di più nella propria formazione: il 93% ha la laurea contro l’87% dei colleghi maschi.
Ma eliminare gli ostacoli per una maggiore partecipazione delle donne alla vita economica del Paese ha anche una convenienza economica. «Portare più donne nel mercato del lavoro aritmeticamente ha un effetto benefico sulla crescita», ha spiegato l’economista dell’Ocse Andrea Garnero. La mancata partecipazione delle donne significa «non utilizzare una miniera di crescita», con conseguenze sulla produttività del Paese. «Uno studio di Bankitalia», ha proseguito Garnero, «ha dimostrato che le donne che entrano nei board sono più giovani e più istruite». Lo conferma anche Sadun: «Se riuscissimo ad ampliare il numero di donne che occupano posizioni manageriali, avremmo effetti positivi di performance. Oggi ci sono persone che valgono molto, ma che restano ai margini. Serve ricollocare i talenti».
Ma è necessario anche un cambiamento culturale, ha aggiunto Garnero: «Il modo di lavorare in Italia non è amico delle famiglie. Lavoriamo troppo e, invece, dovremmo lavorare meglio. Ne beneficerebbero l’economia, ma anche le mamme e i papà».
I pregiudizi da cancellare
I numeri, però, da soli non servono a descrivere il gap di genere. Nel corso della ricerca, sono state intervistate circa 600 donne manager che hanno vissuto la segregazione occupazionale sulla propria pelle. Donne, ha spiegato Buttignol, «che ci hanno raccontato ostacoli e pregiudizi incontrati durante la carriera».
Qualche esempio? Nel caso delle promozioni, le aziende preferiscono gli uomini. E se la promozione avviene, la proposta economica per la donna è inferiore rispetto a quella prevista per gli uomini. Tra gli ostacoli, vengono indicati anche la mancanza di strumenti di conciliazione e il tipo di istruzione (quella umanistica è prevalente). Ma a pesare sono soprattutto i pregiudizi: le donne che si affermano professionalmente vengono viste come madri inadeguate, che non si curano abbastanza della famiglia, come soggetti con caratteristiche maschili o addirittura come professioniste che per affermarsi ricorrono alla seduzione.
Quando si passa ad analizzare le richieste da parte dei vertici aziendali, emerge che alle donne viene chiesto di essere resilienti, capaci di gestire conflitti e problemi. Mentre da loro ci si aspetta che non siano ambiziose, audaci e competitive.
«È una retorica che dobbiamo superare», ha spiegato Monica Magri. «Il sistema binario di leadership, con la distinzione tra il “take care” femminile e il “take charge” maschile, non è più valido. Dobbiamo evitare che le donne si muovano verso lo stile più competitivo, senza valorizzare competenze come la cooperazione e la mediazione che oggi sono importanti nelle leadership inclusive». Lo conferma anche Raffaella Sadun: «Le social skill oggi sono molto richieste nelle posizioni apicali e sono quelle che fanno la differenza».