«Né il centrosinistra né il centrodestra sono in grado di eleggere da soli il prossimo presidente. Il che significa che la sinistra e la destra dovranno necessariamente trovare un punto di incontro su una personalità di garanzia. Una personalità che abbia tutte le qualità necessarie per reggere una posizione di equidistanza istituzionale e politica». Il senatore del Pd Luigi Zanda parla al Corriere del voto per il Quirinale. Non si parla d’altro, ammette. Soprattutto dopo che il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti ha dato il suo endorsement per Mario Draghi al Colle.
Ma Zanda non fa nomi, «innanzitutto per una questione di correttezza, ma anche perché noi viviamo in una situazione politica molto aperta, abbiamo un Parlamento frantumato, quattro partiti con un consenso che va dal 15 al 20 per cento, più una serie di forze minori. Quindi nessun partito senza alleanze può aspirare a governare e tanto meno a eleggere un presidente della Repubblica. Sappiamo inoltre che la consistenza dei gruppi parlamentari non corrisponde alla forza effettiva dei partiti, come ci hanno dimostrato tutte le elezioni svoltesi finora. Perciò fare nomi oggi in una situazione così fluida sarebbe un errore».
Ma no al voto anticipato dopo l’elezione del Capo dello Stato: «Mi sembra che sia profondamente sbagliato legare l’ipotesi delle elezioni politiche alla figura del nuovo presidente della Repubblica perché il capo dello Stato costituzionalmente ha il potere di sciogliere le Camere ma non lo fa certo a suo arbitrio, perché finché c’è una maggioranza politica che sostiene un governo il presidente non può sciogliere. Del resto, lo dice la Costituzione: il Capo dello Stato può sciogliere le Camere, sentiti i loro presidenti».
Eppure l’ipotesi di elezioni anticipate è stata ventilata nel caso in cui Draghi venga eletto al Colle. «Ma noi veniamo da una legislatura che ha già avuto tre diversi governi di coalizione», ammette Zanda. «Potrebbe essercene anche un quarto. Se verrà eletto presidente Draghi, o chiunque altro, nel caso in cui il Parlamento non sia in grado di formare un nuovo governo dovrà sciogliere le Camere, altrimenti no. Le forze politiche devono stare attente a non scaricare le proprie responsabilità sulle spalle del presidente della Repubblica».
Difficile, però, agire sulla riforma della legge elettorale, ma non impossibile. «Non mi sembra che in questo momento ci siano maggioranze che possano far approvare una nuova legge elettorale, però credo anche che quando a gennaio la situazione si sarà stabilizzata, dopo l’elezione del capo dello Stato, le forze politiche potrebbero trovare conveniente una legge elettorale in grado di garantire stabilità e rappresentatività più di quanto faccia l’attuale», spiega il senatore Dem. E la sua scelta ricade su «un sistema proporzionale con uno sbarramento alto, alla tedesca, cioè con il 5 per cento di soglia».
Ma Stefano Bonaccini, presidente Dem dell’Emilia-Romagna, ha un’idea diversa. «Da sempre ritengo che il sistema maggioritario, magari a doppio turno, sarebbe il più efficace per garantire rappresentatività e stabilità di governo. Basti guardare cosa succede nei Comuni e nelle Regioni, dove non si cambia governo ogni anno. Si lavori a una soluzione possibile, anche se non è facile essere fiduciosi», dice a Repubblica. «Penso che permettere agli elettori di scegliere non solo un partito, ma anche uno schieramento di forze sia un valore aggiunto», dice. E poi traccia il perimetro di quello che dovrebbe essere il nuovo centrosinistra: «Governo in Emilia-Romagna con una coalizione che va da Elly Schlein a Italia Viva, dai Verdi ad Azione. E il Pd è il perno di questa alleanza. C’è un confronto molto positivo con i 5 Stelle e molti moderati mi hanno non solo sostenuto, ma si sono candidati nella mia lista civica».
E sull’elezione del presidente della Repubblica, spiega: «Draghi, insieme al presidente Mattarella, è quanto di più autorevole l’Italia possa esprimere in Europa e nel mondo: proprio per questo non userei mai i loro nomi, quattro mesi prima, per ragioni di parte. Il percorso che porta all’elezione della più alta carica dello Stato deve vedere il massimo rispetto delle istituzioni, a partire dal presidente in carica, Mattarella. E dello stesso presidente Draghi, tirato in ballo temo in maniera strumentale. Io non ho alcun veto su di lui, ma proprio per la sua autorevolezza il suo nome va preservato da totonomi prematuri». Ma no al voto prima del 2023: «Lo scioglimento anticipato delle Camere servirebbe solo a confermare l’idea di un’Italia inaffidabile, che anziché programmare gli investimenti per la ricostruzione precipita in campagna elettorale. Ricordo che i soldi europei non spesi nei limiti e nei tempi fissati andranno restituiti. In un Paese normale, ma con un debito al 150% del Pil, questa discussione non si aprirebbe neanche».
E il no al voto anticipato arriva anche da un’altra figura di spicco del Partito democratico, Enzo Amendola, sottosegretario agli Affari Europei. Che alla Stampa dice: «Non si può andare al voto nel 2022, prima viene l’interesse dell’Italia». Amendola guarda avanti, ai rischi di revisione del Patto di Stabilità: «Abbiamo dato vita ad un governo di larga unità per uscire dalle emergenze. I vaccini e la ripresa economica sopra il 6% sono ottimi segnali. Ma nel 2022 gli stimoli finanziari della Bce diminuiranno, le regole su aiuti di Stato e Patto di Stabilità, seppur riformate, torneranno». E aggiunge: «Gli stanziamenti del Pnrr vanno definiti nei prossimi mesi e non nei prossimi anni. Insomma siamo ad un tornante decisivo e delicato. Ogni scenario, inclusa la scelta del Capo dello Stato, deve partire da questa consapevolezza e richiede un conseguente senso di responsabilità. Adesso serve sano pragmatismo per rimettere al sicuro il Paese. Chi vuole le elezioni nel 2022, ha a cuore l’interesse di parte, ma non i destini generali. Prima il bene dell’Italia, poi tutto il resto».
L’augurio di Amendola «è che i partiti, pur partendo da orientamenti contrapposti, realizzino le riforme necessarie sino alla fine della legislatura e agiscano di comune responsabilità per l’elezione della figura più unificante al vertice dello Stato».