Lo scorso 6 dicembre i ministri del Lavoro e delle politiche sociali dell’Unione europea hanno raggiunto un accordo per far crescere i salari. Si tratta di un accordo che toccherà circa venticinque milioni di persone e ha lo scopo di introdurre nuove regole che dovrebbero migliorare i salari più bassi e per questo combattere il cosiddetto dumping sociale, espressione con cui si definisce la politica praticata da alcune imprese, soprattutto multinazionali, di localizzare la propria attività in aree dove possono beneficiare di disposizioni meno restrittive in materia di lavoro e di minore costo del lavoro.
Le nuove regole avallate con l’accordo del sei dicembre scorso dovrebbero contrastare anche l’odioso fenomeno della povertà da lavoro che coinvolge quanti pur avendo un’occupazione si trovano a vivere al di sotto della soglia di povertà. Un fenomeno tutt’altro che raro visto che oggi come oggi riguarda il dieci per cento degli occupati. Tuttavia, come ha sottolineato il quotidiano francese Le Monde recentemente, visto che l’Unione europea non ha il potere di imporre gli standard minimi in materia di retribuzione dei lavoratori, l’accordo non potrà obbligare i governi a introdurre il salario minimo.
Intanto, appena giriamo la medaglia sull’altra faccia, possiamo constatare che dal 1996 a oggi le 52 persone più ricche al mondo hanno registrato una crescita della loro ricchezza di oltre il 9 per cento all’anno. E anche che, nonostante la pandemia o molto probabilmente grazie a essa, la fascia più ricca della popolazione mondiale ha incrementato ulteriormente la propria quota di ricchezza, tanto che il 10 per cento più ricco della popolazione mondiale ne controlla il 76 per cento. E a documentarlo è il World Inequality Report, un rapporto realizzato dal World Inequality Lab, un gruppo di studio, fondato dall’economista Thomas Piketty, che ha sede a Parigi.
Dunque, durante il periodo pandemico a fronte di un aumento della ricchezza per chi la ricchezza la detiene in senso assoluto, circa cento milioni di persone sono invece finite sotto la soglia di povertà. E il fenomeno non ha risparmiato neanche il nostro Paese dove le persone in povertà assoluta sono aumentate di oltre 1 milione, raggiungendo i 5,6 milioni, cioè il 9,4% della popolazione, un valore quasi doppio rispetto a 10 anni fa. E allora se, come ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante il consueto scambio di auguri per le festività con le alte cariche dello stato, «abbiamo visto risposte solidali, sono emersi talenti e qualità inespresse, si sono accelerati processi innovativi», resta il dato di fatto delle nuove povertà e delle crescenti diseguaglianze, le quali sono sempre e comunque frutto di precise scelte politiche. E questa è sia una cattiva notizia, perché ci racconta percorsi intrapresi da molti Paesi tra cui il nostro, fatti di un corposo processo di finanziarizzazione, di una deregolamentazione del mercato del lavoro e di un progressivo smantellamento dello stato sociale il tutto abbinato alla libera circolazione di capitali e merci su scala globale. Ma è anche una buona notizia, perché le scelte politiche non sono inevitabili ma anzi possono e debbono essere variate, aggiornate, ri-orientate al progresso.
Ciò che ci servirebbe sono due forze equivalenti e complementari: la politica e l’economia, supportate da un sistema finanziario accelerato dalla tecnologia ma non a essa sottomesso. Uno sviluppo economico e tecnologico che col suo passaggio non lasci dietro di sé un mondo migliore e una qualità di vita superiore per tutti, non può essere catalogato secondo me come progresso. Questo dovrebbe ricondurci a porre l’attenzione sugli scopi e le finalità della politica, dell’economia, della finanza e dell’uso della tecnologia a esse applicata. Abbiamo un obbligo verso noi stessi: non rassegniamoci all’essere periferici nel difendere la necessità di questo orientamento, e non rinunciamo a farci domande sui fini e sul senso di ogni cosa.