God save the traditionIl Commonwealth ha ancora senso?

Le Barbados hanno smesso di giurare fedeltà alla regina Elisabetta II, diventando una repubblica. Questo potrebbe scatenare un effetto domino per gli altri 14 Paesi che ancora subordinano la loro regolamentazione politica alla sovrana di casa Windsor. Questa cornice anacronistica sembra ormai giovare solo a Londra in ottica Brexit

LaPresse

La transizione dell’isola di Barbados, che da ieri è ufficialmente una repubblica, ha aperto le riflessioni sull’influenza britannica nei territori stranieri. Bisogna innanzitutto spiegare cosa è il Commonwealth: l’organizzazione che raccoglie 54 paesi, accomunati dall’appartenenza all’impero coloniale britannico (fatta eccezione per Ruanda e Mozambico), con l’intento di creare una cooperazione a livello politico ed economico. All’interno degli stati membri, esiste un gruppo (chiamato Regno del Commonwealth) che riconosce la sovranità della Regina Elisabetta.

Non solo il Regno Unito, ma anche altri quattordici paesi (Antigua e Barbuda, Australia, Bahamas, Belize, Canada, Giamaica, Grenada, Isole Salomone, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Grenadine, Saint Lucia e Tuvalu), subordinano la loro regolamentazione politica alla sovrana di casa Windsor, che ricopre l’incarico di Capo di Stato formalmente, nominando ogni 5 anni, su suggerimento del Primo Ministro locale, un Governatore Generale che la rappresenta de facto, gestendo il potere parlamentare. 

Barbados faceva parte di questo elenco, ma da ieri è diventata la repubblica più giovane del mondo, nominando Presidente l’ex Governatrice Generale Sandra Mason. Sebbene le Barbados rimangano nel gruppo più ampio, hanno creato un precedente che potrebbe scatenare una reazione a catena, o quantomeno far traballare un monolite che da quasi un secolo appare inamovibile.

Il mondo intero vive una fase in cui il potere dei singoli stati si è fortemente ridotto. Il concetto stesso di stato ha subìto i pirmi colpi dopo la Prima guerra mondiale, quando la nascita delle Società delle Nazioni ha stabilito che sì, soggetti più grandi potevano dettare le regole. Con ancor più convinzione, la fondazione dell’ONU dopo la Seconda guerra mondiale, è servita per regolare una linea di condotta universale, che cercasse di tutelare i diritti fondamentali del genere umano, anche se, nei fatti, spesso la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 è stata ignorata.

Secondo il modello della turbolenza ideato dal politologo James Rosenau, l’entità statale è pressata oggi da forze diverse, che ne limitano lo spazio di manovra. L’avanzata di organi sovrastatali (come l’Unione Europea, l’Unione Africana, l’ONU), attori economici (su tutti Amazon e i giganti della tecnologia), movimenti transnazionali religiosi e politici (la Chiesa, ma anche QAnon o Black Lives Matter), gruppi terroristici (come l’ISIS o Boko Haram) e gruppi etnici separatisti, sfilacciano la consistenza dell’autorità statale, che per far fronte a questo indebolimento ha progressivamente ceduto sovranità a organizzazioni sovrastatali che potessero raccogliere le istanze e gli obiettivi di più paesi.

In questo panorama, il Regno Unito ha scelto invece di allontanarsi da questo nuovo equilibrio, cercando di isolarsi a livello europeo e di saldare i rapporti con i vecchi alleati (stringendo, per esempio, un accordo con USA e Australia per la fornitura di sottomarini nucleari a discapito della Francia), principalmente per non rimanere del tutto isolato e impotente.

«Il Commonwealth ha ancora un senso se visto dal punto di vista britannico – spiega la professoressa Emanuela Costantini, docente di Storia Contemporanea all’Università degli studi di Perugia -. Oggi, vista la scelta di uscire dall’UE, può servire per creare uno spazio globale di esercizio della propria forza politica. Questa però è più un’aspirazione che una realtà, perché il Regno Unito non ha né la capacità, né la forza per esercitare questa influenza. Brexit e pandemia hanno compromesso le potenzialità economiche del paese. Però, come cornice formale, il Commonwealth esiste, anche se al giorno d’oggi sembra essere fortemente limitato».

Quando nacque il Commonwealth, nel 1926, l’idea di raccogliere tutte le colonie aveva senso, perché permetteva al Re d’Inghilterra di controllare con facilità che tutti i Governatori Generali applicassero un codice di condotta comune. Ora però, diversi stati iniziano a vederlo come un freno allo sviluppo e come un’ingerenza degli ex padroni. Inoltre, sebbene porti vantaggi anche a livelli economici al Regno Unito, regala alla Regina Elisabetta le vestigia di un mezzo impero disfunzionale e totalmente fuori dalla logica dei tempi odierni.

«Il colonialismo tradizionale, per come lo si intendeva nell’800 – prosegue Costantini – è morto. Però si è passati da un esercizio diretto del controllo a uno più indiretto. Alcuni lo chiamano “colonialismo informale”. Aree che una volta erano sotto il potere della madrepatria oggi rientrano comunque nella loro sfera di influenza, non più militarmente, ma anche solo a livello culturale. Questo può essere pericoloso, perché un potere che non si vede è sempre più insidioso di uno visibile. Non è comunque un fenomeno solo europeo, perché rientrano nel discorso anche gli Stati Uniti o la Cina. Dobbiamo forse rivedere il colonialismo e ripensarlo come diverso da ciò che è stato storicamente, ma ancora esistente».

L’esempio barbadiano è dunque una dimostrazione di libertà che, almeno parzialmente, toglie un velo e mostra al mondo l’anacronismo del Commonwealth in tutta la sua purezza. La cerimonia di nascita della Repubblica (in cui tra l’altro la cantante Rihanna è stata nominata “eroe nazionale”) è stata l’occasione per vedere il Principe Carlo d’Inghilterra ammettere che «la schiavitù macchia per sempre la nostra storia». Forse liberare per sempre gli stati del Commonwealth dalla dipendenza da Londra e lasciar spazio a una completa autodeterminazione può dare un seguito alle parole. Belle, per carità, ma un filo inefficaci.

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