L’industria alimentare ricopre un ruolo decisivo nell’inquinamento atmosferico. Gas serra come il metano vengono emessi in enormi quantità sia dall’industria agricola che da quella della carne. Per questo la produzione di ciò che mangiamo ha così tanta importanza anche per riuscire a limitare il cambiamento climatico.
Meno noto è che l’Unione europea sia il blocco politico che sta facendo i passi avanti più ambiziosi per limitare questo tipo di emissioni e per creare un sistema di produzioni e consumi più rispettoso per l’ambiente. La strategia dell’Unione Europea che prende il nome di “Farm to Fork” in questo senso ha un ruolo centrale: è uno dei pilastri del celebre Green Deal europeo, è stata adottata nel 2020 e rafforzata poi nel 2021.
Comprende una revisione generale della filiera alimentare con obiettivi molto ambiziosi, e per questo ben accolti da cittadini e associazioni ambientaliste. Tra gli obiettivi c’è il taglio di ben il 50% delle emissioni di gas serra provenienti dall’agricoltura, il taglio del 50% nell’uso di pesticidi e del 20% nell’uso di fertilizzanti.
Spesso il piano “Farm to Fork” viene descritto come un processo di trasformazione dell’agricoltura industriale in agricoltura “biologica” o “organica”. Sono termini che potrebbero rendere l’idea del cambiamento in corso, anche se decisamente troppo vaghi. Eppure in diversi articoli e documenti ufficiali la necessità di distinguere tra i metodi di produzione agricola più rispettosi dell’ambiente e quelli che invece lo sono meno, ha portato gli autori a usare comunque l’aggettivo “biologico”. Ed ecco che il Parlamento europeo ha votato un piano dettagliato che prevede l’aumento della percentuale di terreni agricoli dell’Ue sotto “gestione biologica” dall’8,1% al 25% entro il 2030.
L’Unione Europea, come dicevamo poco sopra, è la prima sul sentiero che porterà i paesi del mondo a rendere più sostenibile l’agricoltura e l’industria alimentare. Ma se invece parliamo di commercio e giro d’affari complessivo sono gli Stati Uniti, per il momento, a detenere il più grande mercato al mondo di prodotti biologici. Nel 2019 ammontava a ben 51 miliardi di dollari. Il mercato dell’UE è poco inferiore, ammonta a 46 miliardi di dollari annui e, stando a quanto scrive un’esperta come Kathleen Merrigan, grazie al programma Farm to Fork potrebbe presto superare quello statunitense.
Se già l’Unione Europea è all’avanguardia nel rendere meno impattante il settore agricolo, va detto che l’Italia fa ancora meglio. È uno dei primi nove paesi al mondo per percentuale di territorio dedicato all’agricoltura biologica (il 15,2%) e ben 13 mila scuole sul territorio italiano usano ingredienti che provengono proprio da questa filiera.
Al contrario dell’Unione Europea gli Stati uniti non hanno un piano nazionale che mira a espandere la produzione biologica e, che è ancora più importante, un piano simile non sembra nemmeno esserci all’orizzonte. Meno dell’1% dei terreni agricoli statunitensi (2,3 milioni di ettari) è coltivato secondo gli standard biologici nazionali, rispetto ai 14,6 milioni di ettari dell’UE. In altre parole si può dire che il mercato del biologico negli Stati Uniti è ampio, ma fatto essenzialmente da importazioni, cosa che impatta direttamente su quanto a lungo le merci debbano essere trasportate prima di essere consumate, e lascia la prima economia del mondo a una produzione che, invece, causa più emissioni e una minore salvaguardia degli ecosistemi. Il presidente Biden, proprio perché quella del biologico sembra un’occasione persa sia dal punto di vista dell’ecologia che da quello dell’economia, ha puntato su un aumento dei consumi di prodotti interni, una strategia “Buy American”, che però non sembra stia funzionando.
La differenza tra Ue e Stati Uniti, però, non è frutto del caso o della lungimiranza europea, ma del fatto che i due blocchi politici, sull’agricoltura biologica, la pensano in modo molto diverso. Da una parte dell’Atlantico si punta (come dimostra il piano Farm to Fork) ad aumentare la percentuale di territorio dedicato a un’agricoltura meno impattante e a basse emissioni. Dall’altra invece è preponderante l’idea che questo, a conti fatti, non sia conveniente perché diminuirebbe la produzione globale e di conseguenza farebbe aumentare i prezzi. Non a caso Tom Vilsack, l’attuale Segretario dell’agricoltura (il corrispettivo del nostro Ministro alle politiche agricole), ha proposto di recente la nascita di una coalizione internazionale sulla “crescita sostenibile e la produttività” con obiettivi molto diversi da quelli perseguiti dai paesi europei. L’idea è quella di aumentare la resa dell’industria agricola «per nutrire una popolazione mondiale in crescita». In particolare Washington vorrebbe usare tecnologie come l’editing genetico, l’agricoltura di precisione e l’intelligenza artificiale per riuscire a produrre di più e tenere bassi i prezzi. Secondo la già citata Merrigan l’approccio statunitense, oltre che essere espressione di un dibattito scientifico sensato, viene soprattutto dai lobbisti. In particolare «dai grandi gruppi dell’agricoltura convenzionale, tra cui Syngenta, Bayer e Corteva – tre delle quattro più grandi compagnie agrochimiche al mondo – insieme al loro braccio di lobbying, CropLife America».