«Being too aspirational is repellent now – the rise of the “genuinfluencers”», scriveva il Guardian qualche mese fa. Ma chi sono i genuinfluencer? «Sono degli influencer particolari che si caratterizzano per la loro genuinità di immagine, di espressione, di comunicazione», spiega Alice Avallone, data humanist, etnografa digitale per le aziende e insegnante di Digital Storytelling alla Scuola Holden. «Sono esperti di un determinato settore o di uno specifico argomento, e utilizzano le proprie piattaforme social per mettere in condivisione contenuti informativi e affidabili che partono innanzitutto dalla loro esperienza. Più orientati al lato educational, dunque, queste figure vantano un pubblico a volte più ristretto, ma molto attivo. E, generalmente, più la tematica è circoscritta, più la comunità è vivace».
La maggior parte di loro ha detto addio alla promozione di uno stile di vita lussuoso e irraggiungibile a cui ci siamo abituati. «Questo modello non funziona più, ne siamo saturi», sottolinea l’esperta. «Nella fitta selva di fake news e insistenti advertising più o meno dichiarati, i genuinfluencer sono una sorta di zona franca dove le persone possono andare per trovare contenuti più interessanti ed educativi».
Avallone, qual è l’identikit del genuinfluencer?
Il termine genuinfluencer è stato coniato nel gennaio del 2021 da Wgsn, una società americana specializzata nella previsione di tendenze, per identificare le figure che scelgono di adoperare i social, in genere Instagram, per condividere suggerimenti e consigli spassionati e non vincolati da accordi commerciali. Il loro principale intento è quello di “influenzare” una consapevolezza.
Di cosa parlano?
Parlano soprattutto di tensioni sociali e culturali. Questo può avvenire attraverso il racconto di un nuovo libro sul femminismo, una linea di profumi no-gender, un oggetto prodotto in modo sostenibile. Se parlano di una tavoletta di cioccolato, rendono consapevole la propria community della composizione, dell’origine degli ingredienti e dei benefici: in una parola sola, informano.
E qui sta il cambio di passo: a fronte di uno stesso prodotto, si sta abbandonando una certa sbrigativa superficialità che ha caratterizzato da sempre gli influencer tradizionali, per una maggiore profondità rispetto a ciò che quello spazzolino o paio di ciabatte rappresenta per noi, per l’ambiente, per la società. Infine, i genuinfluencer si riconoscono per un’indole votata a una divulgazione semplice e comprensibile, anche su importanti temi di attualità.
Qualche nome (italiano)?
In Italia sono soprattutto donne e Millennial, che hanno conosciuto da vicino il boom dei primi influencer e che ora stanno pian piano trovando un diverso equilibrio e una diversa definizione di questa etichetta. Non cercano necessariamente di attirare un pubblico enorme, perché innanzitutto parlano degli argomenti che contano davvero per loro. È possibile scovarli tra i cosiddetti micro-influencer (10-50mila follower) o addirittura tra i nano-influencer (sotto i 10mila). Su Instagram, penso alle story di Michela Calculli (@michelacalculli) e di Simona Melani (@simonamelani) che trattano temi legati al risparmio e all’educazione finanziaria; a Marta Pavia (@zuccaviolina), che svela il dietro le quinte delle foto perfette; a Espérance Hakuzwimana (@unavitadistendhal) e il suo impegno di attivista con i consigli letterari; a Donata Columbro (@donatacolumbro) che di recente ha raccontato in modo trasparente la fatica di accudire un neonato.
Quali sono i loro canali preferiti?
In Italia, la maggior parte dei genuinfluencer lavora in proprio, ed è presente su Instagram. C’è poi una parte più piccola, ma in forte crescita che abbraccia anche la fascia della Generazione Z che, soprattutto su TikTok, può dar voce al proprio Dna attivista.
E all’estero?
All’estero funziona in maniera diversa. Da tempo stiamo osservando un decentramento dell’influenza, in cui piattaforme diverse creano spazi per diversi tipi di influencer. Di conseguenza, ogni canale ha la sua particolare modalità di influenza. I fan dello streetwear cercano consigli di moda su Discord; chi cerca consigli professionali va su Reddit. Inoltre, stanno nascendo diverse piattaforme che si concentrano sulle singole passioni e preferenze delle persone come Depop, BopDrop e OnlyFans. Via via è facile prevedere che anche in Italia le comunità più giovani si allontaneranno dai social media tradizionali come Facebook e Instagram e dai loro algoritmi.
Come si riconoscono i genuinfluencer?
Utilizzano un linguaggio autentico, attraverso video spontanei e format fotografici e testuali meno costruiti; si muovono in location casalinghe e ambientazioni familiari. Ma ciò che li caratterizza è soprattutto il desiderio di non mostrare solo il proprio lato più patinato, ma anche le proprie fragilità. Insomma, la narrazione che imbastiscono davanti alla propria community mostra i normali chiaroscuri che tutti noi viviamo quotidianamente. Parlano di difficoltà, problematiche personali, errori grandi e piccoli, e in questo modo diventa molto più facile identificarsi in loro.
Questo spiegherebbe il motivo che ha spinto il “Guardian” a scrivere «Being too aspirational is repellent now»…
Esatto. Ed è curioso come, in realtà, già prima che la pandemia irrompesse nelle nostre vite, gli utenti dei social media stavano lamentando una certa stanchezza della perfezione. Su Instagram, ad esempio, sia gli adolescenti che gli influencer stessi, stavano creando account “finsta” (contrazione di “Fake Instagram”) dove raccontare – paradossalmente – la propria vita vera, senza filtri. Dopodiché, con il primo lockdown, le persone hanno iniziato a cercare una autenticità capace di riflettere il periodo precario che si stava iniziando a vivere, lontani dai cocktail e dai luoghi modaioli. Facile ricordare come da quel marzo 2020 all’improvviso tutti hanno smesso, per forza di cose, di rappresentare vite sfavillanti, di azzeccare angolazioni impeccabili e di rispettare armoniose palette. Abbiamo visto tante librerie alle spalle delle videochiamate con i colleghi su Zoom e dei collegamenti con i giornalisti in tv, e abbiamo visto anche tanto impasto per pane e pizza. Oggi siamo più cauti a mostrare “troppo”, a sembrare troppo “aspirazionali”. Siamo tornati a condividere aperitivi e gite fuori porta, certo, ma continuiamo a essere altrettanto contenti e orgogliosi anche di casa nostra, delle cose più semplici.
I consumatori apprezzano. E le aziende come si stanno organizzando?
I marchi stessi stanno via via facendo proprio tale approccio. Come racconto nel mio libro, “#Datastories. Seguire le impronte umane sul digitale” (Hoepli, 2021), il progetto Seed University, per esempio, è tra i primi ad aver provato a rovesciare il modello degli influencer così come l’abbiamo conosciuto fino a questo momento. Anziché inviare campioni gratuiti per reclutare testimonial sui social media, la società di probiotici Seed ha messo in piedi un corso per diventare esperti riguardo i suoi prodotti. È un inizio. Le persone che si iscrivono sono istruite sul lato scientifico dei prodotti e su come commercializzarli in modo trasparente e accurato.
È naif pensare che esistano persone che si mettono davanti alla fotocamera del proprio cellulare solo per pubblicizzare un prodotto oppure sostenere una causa, senza il desiderio di avere un ritorno economico e di immagine?
No, non lo penso, anzi. Raccontare e sposare senza tornaconto personale un prodotto, un servizio o una causa significa riconoscersi pienamente in ciò che si sta sostenendo. Dunque, entra in gioco un fattore identitario: parlo di questo libro o di questa raccolta firme perché ci credo, perché mi riconosco, e riconosco i miei valori, ciò in cui credo. Più che un gesto naif, penso sia un gesto di grande cuore quello di mettere in condivisione con le altre persone ciò che ci fa stare bene e che migliora la nostra vita, che sia l’aver scovato una lettura impegnata, l’aver sostenuto un crowdfunding o l’aver provato un rimedio per rendere più bella la pelle.