Da qualche tempo mi sono convinto che il complesso (ma più spesso: insostenibile) dibattito sulla cancel culture versi in uno stato degradante per colpa – o meglio: per dolo – di chi lo alimenta e indirizza. Da una parte ci sono i media per così dire tradizionali, per cui al primo vestito cambiato a Jessica Rabbit ci troviamo, scava scava, in presenza di segni di un preoccupante effetto domino che ci porterà a cancellare Manzoni e i classici; nell’angolo opposto altri media, influencer, memer, pagine Facebook e giornalisti-attivisti (il confine è sempre più labile), la cui priorità è diventata certificare che non sta succedendo niente, a prescindere dall’evidenza.
Per una somma di contraddizioni in termini ed eterogenesi dei fini, al secondo fronte si è progressivamente unita anche una categoria del giornalismo diventata – talvolta con merito – imprescindibile negli ultimi anni: il debunking. Col debunking (o, per usare un sinonimo, fact-checking), vuole l’adagio, si possono mettere in fila i fatti di un dato fenomeno, disinnescandone coperture parziali, viziate o direttamente falsarie. Ma allora, com’è possibile che un giornalismo che “guarda ai fatti” sia diventato un giornalismo che li riplasma, per farli rientrare in una tesi precostituita?
Un caso emblematico è quello di Michael Hobbes, giornalista americano che qualche giorno fa ha condiviso un viralissimo debunking del celebre saggio scritto sul tema da Anne Applebaum sull’Atlantic, che aveva ricostruito le vicende personali di diversi personaggi vittima di una nuova forma di gogna violenta, quella ispirata – sebbene molto lascamente – all’inclusività. Hobbes dice fin dal sottotitolo del suo intervento che si tratta di «scare stories», cioè di storie costruite ad arte per spaventare il pubblico, e nell’incipit le paragona a quando, negli anni Novanta, i media convinsero gli statunitensi dell’esistenza di un’ondata di liti temerarie che intasavano la macchina della giustizia nazionale. Lo stesso, secondo Hobbes, sta succedendo oggi col cosiddetto «moral panic journalism» di cui la stessa Applebaum – insieme al numero dell’Economist dedicato alla «minaccia della sinistra illiberale» – può essere elevata ad esempio da decostruire e criticare.
Ma è davvero così? Da chi, come Hobbes, punta il dito sullo «stesso ragionamento motivato, le stesse prove inesistenti e gli stessi indifendibili standard editoriali che disinformarono il pubblico sulle liti temerarie», ci si aspetterebbe quantomeno una corretta verifica delle vicende su cui promette di gettare una luce “terza”, non-motivata e capace di riportare il discorso alla sua naturale dimensione. Se l’Atlantic e l’Economist stanno plagiando i loro lettori per vendere qualche copia in più, per dire che il re è nudo non ci resta che raccontare la verità, giusto?
Mirabile a dirsi, ma no: sbagliato. Nel suo Substack, Hobbes parla di «conseguenze professionali di routine» patite dalle persone intervistate da Applebaum, e per farlo e perorare la sua causa di pompiere falsa in tutto o in parte ogni singolo caso che passa in rassegna. Nella paziente e precisa risposta che gli ha dato l’autrice Cathy Young tutto diventa più chiaro, e – purtroppo per le migliaia di persone che hanno condiviso il suo intervento entusiasticamente – la malafede traspare in modo limpido e indiscutibile.
Per entrare nello specifico delle menzogne del giornalista-debunker: non è vero che il compositore Daniel Elder, senza lavoro dopo un post su Instagram in cui criticava rispettosamente il rogo del municipio della sua città durante una manifestazione di Black Lives Matter, è stato semplicemente «ritirato dalle esibizioni» (la sua etichetta l’ha lasciato a piedi, semmai); non è vero che Alexandra Duncan, autrice di un libro di genere young adult che conteneva un capitolo scritto dal punto di vista di una ragazza nera, e per questo vittima di shitstorm d’accusa di cultural appropriation a profusione che l’hanno portata ad annullarne l’uscita, ha soltanto «ricevuto critiche per il concept di un manoscritto inedito e ha deciso di non pubblicarlo», come in una cordiale seduta di autocoscienza collettiva; non è vero che il dottorando Colin Wright, che non è riuscito a trovare lavoro dopo aver pubblicato alcuni saggi critici dell’identità di genere, abbia mai scritto che «le persone trans non esistono», come dice Hobbes; e non è vero neanche che la docente della New School Laurie Sheck, citando per esteso un brano dello scrittore afroamericano James Baldwin in cui appariva la “n-word” a una classe di scrittura creativa nel 2019, se l’è cavata con un rapido buffetto da parte dell’ateneo dopo essere stata segnalata da due studenti: è lei stessa ad aver spiegato di aver dovuto scrivere alla Foundation for Individual Rights in Education per uscire dall’impasse col suo datore di lavoro, durato mesi.
E si potrebbe continuare, ma rimandiamo alla contro-disamina di Young. Il punto è che, ancora una volta, su questi temi i debunker devono essere debunkati a loro volta, perché anche quando si vendono come “terzi” e desiderosi di ripianare narrazioni mediatiche (che spesso sono oggettivamente fuori scala, va detto), in realtà stanno mettendo in circolo ulteriori balle, che si sommano alle tonnellate già riversate nel discorso pubblico. In Italia, ad esempio, la cosiddetta cancel culture – un’espressione che, per inciso, Anne Applebaum nel suo saggio cita soltanto per parlare di come la destra l’abbia resa un feticcio per «difendersi da critiche, anche legittime» – è stata accostata in interventi “di fact-checking” simili a semplici forme di «boicottaggio promosse online con cui ci si dissocia da aziende o celebrità che hanno manifestato comportamenti controversi od oltraggiosi». Una cosa che evidentemente non è, e una definizione parziale e fuorviante che non può che ostacolare la comprensione e, quindi, il dibattito su questi temi.
La cancel culture non è affatto il maggior problema del 2021, siamo d’accordo: ma dato che non lo è, qual è il senso di arrabattarsi in difese d’ufficio contraddittorie, intenzionali confusioni di piani e menzogne dure e pure? Lo stesso Hobbes avrebbe potuto limitarsi a sostenere quel che pure sostiene nel suo j’accuse apparentemente terzista, benché confinato al finale del sermone: al potere negli Stati Uniti ci sono ancora personaggi che fanno un vario grado di comunella coi razzisti, e talvolta si indignano e vanno in guerra perché qualche professore di scuola media vuole dire due parole alle sue classi sulla schiavitù nella storia americana.
Perché il fact-checker lo ha fatto solo tangenzialmente? Beh, perché non gli serviva a realizzare il suo vero intento: che i fascisti rimangano il pericolo peggiore lo dice, e senza mezzi termini, anche la stessa Applebaum, cioè la destinataria della sua aspra critica. L’oggettivo, neutrale e post-politico fact-checker si è trovato così in una posizione scomoda: come si fa a dare alla moderata anti-cancel culture della utile idiota dei reazionari, se è lei stessa a scrivere che il problema sono i reazionari? Hobbes nel suo testo la risolve col più penoso degli stratagemmi: accusa la storica di puntualizzarlo solo «dopo otto paragrafi», e in ogni caso di farlo in un articolo che parla di «Nuovi puritani», come se fosse un titolo incendiario.
Potrebbe sembrare un caso qualunque, ma il pezzo di Hobbes negli ultimi giorni ha avuto migliaia di migliaia di condivisioni ed encomi negli Stati Uniti, anche da parte delle élite che dominano nell’estabishment dei media, della cultura e dell’università.
Questa dinamica rende manifesto un dato di fatto a lungo ignorato: in un dibattito così ideologico e privo di sfumature, da una parte e dall’altra, sarà difficile trovare un “pacificatore” disposto a prendersi il peso di sbrogliare la matassa senza sposare totalmente la prospettiva di una singola fazione in lotta, perché significherebbe scontentare entrambe, addentrandosi in un campo minato in cui nessuno ha ragione in maniera univoca e definitiva. Non ci sono solo conservatori zittiti e cancellati a ogni piè sospinto, nelle guerre culturali americane, ma nemmeno soltanto attivisti vittime di isterie mediatiche.
La realtà, anche se può non piacerci, è complessa. Al formato di articolo-del-debunker-che-ci-spiega-che-è-tutta-una-invenzione (o, nel caso inverso, che La-Fine-È-Vicina), di questi tempi, bisogna sempre fare una tara attenta e meticolosa. Non è oro tutto quel che luccica, anche se a prima vista sembra un metallo fatto apposta per una condivisione da nemesi dell’avversario. E si è visto: l’articolo “chiarificatore” dell’onesto Hobbes soltanto su Twitter ha cinquemila mi piace; quello che lo smentisce, di Cathy Young, qualche decina. Sipario.