La giornata mondialeI casi di Aids stanno diminuendo, ma con la pandemia curarsi è sempre più difficile

In Italia nel 2020 sono state segnalati 2,2 casi di infezione da Hiv ogni 100.000 residenti. Una media inferiore a quella europea è in netto calo rispetto al 2012. Ma l’emergenza sanitaria ha ridotto, se non azzerato, i servizi di terapia antiretrovirali e diagnosi. Un problema che riguarda soprattutto gli adolescenti

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Ricorre oggi la Giornata mondiale contro l’Aids, che, celebrata per la prima volta l’1 dicembre 1988 su impulso dell’Organizzazione mondiale della Sanità, è nota a livello globale come World Aids Day. A poco meno di quindici giorni da tale data l’Istituto Superiore di Sanità aveva diffuso, secondo una prassi annua iniziata nel 2012, i dati sulle nuove diagnosi di infezione da Hiv e dei casi di Aids in Italia relativamente all’intero 2020. Dati che, raccolti ed elaborati dal Centro Operativo Aids (COA) del medesimo Istituto, sono stati pubblicati nel penultimo numero del Notiziario dell’ISS grazie al contributo di componenti del Comitato tecnico sanitario e di referenti della Direzione generale della Prevenzione sanitaria, l’uno e l’altra in essere presso il ministero di Lungotevere Ripa.

In base a tale rapporto emerge che nello scorso anno sono state segnalate 1.303 nuove diagnosi di infezione da Hiv pari a un’incidenza di 2,2 nuovi casi ogni 100.000 residenti. In netta riduzione, dunque, a partire dal 2012 e con diminuzione progressiva più evidente rispetto al 2018, in cui un tale dato ammontava a 2.847 unità, e al 2019, quando il leggero calo si era attestato a 2.583 nuove diagnosi. Dal 2018 si osserva inoltre un’evidente diminuzione dei casi per tutti i modi di trasmissione. D’altra parte, bisogna pur sempre considerare che i dati relativi al 2020 hanno risentito dell’emergenza Covid-19 «in modi e misure – come osservato dal Notiziario dell’Iss – che potranno essere correttamente valutate solo verificando i dati dei prossimi anni». Ciò non toglie che l’incidenza osservata in Italia sia inferiore rispetto a quella media rilevata tra i Paesi Ue: 3,3 nuovi casi ogni 100.000 residenti. 

Per quel che riguarda la nostra specifica realtà, la proporzione di nuovi casi attribuibile a trasmissione eterosessuale è stata del 42% (25% maschi e 17% femmine), quella a MSM, cioè a maschi che fanno sesso con maschi e sono quindi di orientamento omosessuale o bisessuale, del 46% e quella, infine, a persone che usano sostanze stupefacenti del 3%. Nel 2020 le incidenze più alte a livello regionale sono state registrate in Valle d’Aosta, Liguria, Provincia Autonoma di Trento e Lazio. Nel complesso le persone che hanno scoperto di essere Hiv positive sono state nel 79,9% maschi, mentre l’età mediana è stata di 40 anni per entrambi i generi. L’incidenza più alta al riguardo è stata osservata tra le persone di 25-29 anni (5,5 nuovi casi ogni 100.000 residenti) e di 30-39 anni (5,2 nuovi casi ogni 100.000 residenti): in queste fasce d’età l’incidenza nei maschi è stata circa quattro volte superiore a quelle delle femmine. Benché poi il numero di nuove diagnosi in stranieri sia in diminuzione dal 2017, nell’anno scorso si è osservato un lieve aumento della proporzione di persone di nazionalità estera, cui è stato diagnosticato l’Hiv: si è passati dal 27,5% nel 2019 al 32,6% nel 2020.

Da ultimo, i dati sull’Aids, che vengono raccolti ed elaborati dal Registro Nazionale Aids, si attestano per il 2020 a 352 segnalazioni di nuovi casi, pari a un’incidenza di 0,7 per 100.000 residenti. L’80% di essi continua a essere costituito da persone che hanno scoperto di essere Hiv positive nei sei mesi precedenti alla diagnosi di Aids. Dal 1981, inizio della pandemia tra le più distruttive di tutti i tempi, a oggi in Italia sono stati segnalati 71.591 casi di Aids, di cui 46.366 deceduti entro il 2018. Questo comprova d’altra parte come la portata della malattia sia in costante diminuzione. 

Circa le diagnosi tardive di sieropositività, che negli ultimi tre anni hanno registrato un costante aumento in termini di vicinanza temporale a quelle di Aids, Sandro Mattioli, presidente dell’associazione “Plus – Persone Lgbt+ sieropositive”, spiega a Linkiesta che le motivazioni a quelle sottese «sono molteplici. Non si può però non rilevare come tanti ragazzi abbiano paura del giudizio altrui: si ha difficoltà e imbarazzo a parlare di un’infezione che, nella stragrande maggioranza, è a trasmissione sessuale. Paura del giudizio dell’infettivologo o del medico di Pronto soccorso, il che induce molti di loro a non tornare più e a rimandare costantemente il test». Per l’attivista gli stessi dati del 2020, se sono «indubbiamente positivi rispetto a quelli di due anni fa, presentano non poche criticità. Essi, infatti, non ci dicono mai la differenza dei test del 2019 rispetto a quelli ultimi. Ciò dipende, fra l’altro, anche dalle Regioni, che spesse volte non conoscono il numero effettivo di chi nei propri territori si è sottoposto a test». 

Indubbiamente di passi in avanti, e non da poco, ne sono stati fatti dal 1981 a oggi. Lo fa notare al nostro giornale Franco Grillini, ex parlamentare nonché uno dei leader storici del movimento Lgbt+ italiano, che dice: «Chi come me ha vissuto la tragica stagione iniziale della pandemia dell’Aids, sa bene che in tutti gli anni ’80 l’unico a condurre battaglie di informazione, prevenzione e sensibilizzazione è stato il mondo del volontariato. Quel volontariato, che è stato un vero e proprio sostituto dello Stato impegnato nel lavarsene apertamente le mani per espressa volontà politica. Mi piace qui citare tra le varie realtà associative, che hanno garantito servizi, Arcigay, Asa di Milano, Circolo di Cultura Mario Mieli, Lila e Anlaids. Le cose poi cambiarono con la legge 135 del 1990, che oggi, come noto, è oggetto di una revisione a opera del forzista Mauro D’Attis, primo firmatario di uno specifico pdl. Non mancano le criticità ma so che il deputato azzurro si sta confrontando con le associazioni e appare ben disposto a valutarne le singole istanze».

Per il presidente onorario di Arcigay la grande svolta nel modo di approcciare la questione Hiv/Aids la si ebbe «nel 1991 con lo specifico Congresso mondiale sul tema: vi s’impose quella che sarebbe stata la linea dei decenni successivi, volta soprattutto a valorizzare la dimensione della cronicizzazione della malattia. Linea che ebbe molto successo con l’apparire, nella metà degli anni, della triterapia che ha salvato molte persone». 

Da tale quadro si evince quanto, in ogni caso, sia necessario non abbassare la guardia e continuare in un serio impegno di informazione, prevenzione e contrasto all’Hiv/Aids. I dati italiani vanno poi letti in un contesto globale secondo i rapporti dell’Oms e dell’Unicef: da essi fra l’altro emerge che, se già nel 2019 i progressi in tale lotta erano rallentati, la pandemia da Covid-19, con l’interruzione alternata, almeno nella prima parte dell’anno, di molti servizi di terapia e diagnosi, ha dato la battuta finale d’arresto vanificando molti degli obiettivi previsti. Nel 2020 le nuove diagnosi di Hiv in tutto il mondo sono state sono state 1.500.000, portando così a 37.700.000 il numero complessivo delle persone Hiv positive. 680.000, invece, le persone decedute per complicanze da Aids. 

Un prezzo molto alto lo hanno pagato infanti e adolescenti, che sono maggiormente senza accesso alle terapie. L’anno scorso sono stati registrati nei cinque continenti 310.000 nuovi casi tra minori, 1 ogni 2 minuti, che ha fatto così lievitare fino a 2.078.000 il numero di bambine e bambini Hiv positivi. 120.000, infine, quelli morti nel 2020 per Aids. Ma come denunciato dall’Unicef, poco più della metà di loro ha avuto accesso alle terapie antiretrovirali. Molto al di sotto, dunque, della copertura offerta alle madri (85%) e ad adulti sieropositivi (82%).

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