Nuova eraL’applicazione del draghismo anche ai partiti farebbe chiarezza

Dopo il berlusconismo e il populismo, l’Italia è entrata in una fase di stallo politico in cui destra e sinistra appaiono concetti nebulosi e le coalizioni sono finte come i trucchi del cinema. L’elettore medio sceglie di astenersi. Ora però i partiti potrebbero ridefinire la loro linea facendo capire chi sta davvero con il riformismo del premier e chi no. E poi, su questo, chiedere il voto ai cittadini. Da Linkiesta Magazine in edicola, in libreria o su Linkiesta Store

LaPresse

Questo è un articolo dell’ultimo numero di Linkiesta Magazine + New York Times World Review in edicola a Milano e Roma e ordinabile qui.
——————————————

Diceva Norberto Bobbio che «il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze». Al contrario dei politici, verrebbe da dire: a loro spetta il compito proprio di fornire «certezze », cioè di dare ordine al caos. Che è esattamente l’urgenza italiana, e non da oggi. Ma oggi più di ieri.

Ci vorrebbe insomma un Mario Draghi della politica (che possa essere lui stesso?) come c’è un Mario Draghi che ha condotto la guerra al Covid e preso per mano l’economia del nostro Paese. Ha messo ordine nel caos: c’era una tragica confusione all’inizio della pandemia – le mascherine, il lockdown, le cure che non c’erano – e piano piano è arrivata la vaccinazione di massa, con i mezzi e con le regole, nella razionalità di un ordine democraticamente stabilito, al di là delle isterie no vax e no pass. E il Pil, che era crollato, gradualmente è risalito, un rimbalzo ma non solo.

Almeno nel metodo, non si potrebbe provare a fare la stessa cosa in quella selva oscura che è diventata la politica italiana? Abbiamo un Parlamento che è il simulacro della “casa della democrazia” così come vorrebbe la Costituzione, diviso tra partiti spesso sbrindellati con forte propensione trasformistica, spesso inconcludente, più ring pugilistico che sede di civile confronto. Abbiamo partiti chiusi nelle loro casematte di potere con i ponti levatoi ben alzati nei confronti di tutto ciò che non sia professionismo politico oppure partiti come effimere aggregazioni spesso personalistiche senza il respiro della storia ma al massimo della cronaca.

Abbiamo un sistema elettorale che né garantisce governabilità né riproduce fedelmente gli orientamenti dei cittadini. Per fortuna abbiamo due assi portanti che bene reggono la baracca, la presidenza della Repubblica e il governo centrale. Ma è chiaro che l’appuntamento con una grande riforma della politica non potrà essere eluso per molto tempo, pena la decadenza definitiva del sistema democratico.

Dopo il berlusconismo e il populismo – contro i quali si è battuto con alti e bassi il centrosinistra che, malgrado abbia governato per tanto tempo, non è riuscito a imprimere una svolta di sistema – siamo entrati in una fase di stallo politico, in cui nessun attore esercita una reale egemonia (intesa come forza più consenso). L’elettore medio non ci capisce più nulla e sceglie di astenersi.

Destra e sinistra appaiono concetti piuttosto nebulosi, nel bombardamento mediatico e situazionista di oggi, e le coalizioni sono finte come i trucchi del cinema. Ora, senza coccolare la nostalgia, bisogna in qualche modo ammettere che la vituperata Prima Repubblica era più chiara della melassa politico-parlamentare che si è aggrumata in questi anni di post-politica o, come dicono alcuni studiosi, di politica pop. A suo modo, il bipolarismo italiano era un modo di ristrutturare il sistema politico post-Tangentopoli e post-comunismo: c’erano carne e sangue, ancora, per parlare ai cittadini. Oggi no.

La politica è ridotta a mera tecnica di conquista di posizioni di potere, lontano dal sentire della società. E così, da anni, le parti migliori della società italiana, più competenti e innovative, socialmente produttivamente, culturalmente, collocate a destra o a sinistra, hanno scelto di non impegnarsi in politica. La ricerca individualistica del successo in altri campi da sola non spiega un disimpegno così ampio. Di certo la politica da molto tempo non è accogliente e non fa nulla per esserlo. La politica è diventata un mestiere, molto spesso, per mediocri.

Ha osservato giustamente Angelo Panebianco (sul Corriere della Sera dello scorso 15 settembre): «Cosa possono fare, in queste condizioni, i partiti deboli che ci ritroviamo? Possono solo cercare ogni occasione di differenziazione reciproca. Ci si distingue costantemente dal proprio vicino (dal partito politicamente meno lontano) al fine di strappargli una manciata di voti. Così la Lega in rapporto ai Fratelli d’Italia, così il Pd in rapporto ai 5 Stelle. Eccetera». Ma se è così – ed è così – non converrebbe prenderne atto e lasciare ai cittadini il responso su quale sia il progetto migliore piantandola con la finzione pirandelliana di coalizioni finte? Non gioverebbe alla trasparenza democratica del rapporto fra elettori ed eletti?

Occorrerebbe dunque un po’ di ordine, di trasparenza, per ristabilire un rapporto tra la politica e la società mediante l’azione dei partiti, che restano comunque la forma migliore della democrazia che si organizza in vista del governo del Paese. Solo se i cittadini torneranno a vedere nei partiti i soggetti democratici che elaborano soluzioni la politica italiana potrà sfuggire al destino altrimenti ineluttabile del declino e, forse, della tirannia dei mezzi finanziari e di comunicazione dei potenti di turno. Dunque servono riforme istituzionali semplici. Un sistema elettorale proporzionale che riapra i canali fra partiti e popolo, un Parlamento che recuperi un ruolo centrale malgrado l’azzoppamento inferto con la riduzione del numero dei parlamentari, un governo che abbia gli strumenti per decidere, un premier che sia il dominus della situazione.

Bisogna fare però i conti con un sistema dei partiti alla deriva. Nel quale le singole forze politiche hanno con il tempo smarrito il senso di sé e della propria funzione. Si può forse dire che la Lega sia ancora portatrice degli interessi del Nord produttivo? Si può sostenere che il Partito democratico ricopra la funzione di un moderno partito progressista a vocazione maggioritaria? Tutto è cambiato in questi anni anche perché i partiti sono stati sottoposti a un bombardamento mediatico-populista senza precedenti (l’unico paragone possibile è con gli anni del primo dopoguerra, olio di ricino a parte), un assalto a-democratico che tra l’altro ha messo da un canto le ragioni del governare a favore di quelle del protestare. Questa insurrezione di fasce più esposte alle scorciatoie populiste non è finita, anzi (ora si nasconde dietro le ansie della pandemia), ma con la crisi del Movimento cinque stelle nella versione grillino-dibattistiana non ha più uno strumento politico di riferimento, né la destra sovranista appare in grado di sfondare il quadro politico a suo favore.

La palla dunque torna – o meglio, potrebbe tornare – nel campo del centrosinistra, nelle sue due versioni: quella “socialdemocratica” del Pd, non immune da tentazioni stataliste e novecentesche, e quella liberale che però stenta molto a trovare una sua rappresentazione coerente. Ma gli attuali gruppi dirigenti di questo centrosinistra, per svariate e complesse ragioni, appaiono tuttora non in grado di porsi al livello della doppia sfida che l’Italia continua e continuerà per molto tempo ad avere di fronte: la guerra al Covid e l’uscita dalla crisi economica (che coincide con la grande riforma/modernizzazione del Paese).

Ed è per questo che la funzione di Mario Draghi non può essere considerata come una parentesi ma come un fattore irripetibile di stabilità e di rilancio del sistema-Italia, sia dal punto di vista della politica economica che da quello della politica tout court. Perché una cosa forse non è stata ancora ben chiarita: e cioè che il “draghismo” è una piattaforma politica, perché è politico l’europeismo di cui si informa, è politico il rapporto pragmatico con i problemi, è politica la dialettica instaurata tra il premier e i partiti, è politica la scelta di non lasciarsi triturare dal day by day e dalla dittatura dell’immagine, è politico il rifarsi alla migliore scuola liberal-democratica e progressista, è politico soprattutto il guardare al dopodomani, come diceva Aldo Moro, alla ricostruzione di una nuova Italia.

È dunque attorno al draghismo che i partiti possono ridefinire la loro linea e su questo ricostruire un rapporto con la società. Rendendo chiaro, al di là delle manovre di palazzo, chi sta con il riformismo di Draghi e chi no. Davanti ai cittadini, in libere elezioni, quando sarà.

Linkiesta Magazine + New York Times World Review in edicola a Milano e Roma e ordinabile qui.

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club