La cosa più bella interrotta dalla pandemia era la residenza di Gianni Morandi al Duse, il teatro di Bologna dove da piccola andavo a piedi da casa a vedere Vittorio Gassman e da grande in treno apposta per sentire Banane e lampone. Come nelle residenze di Broadway – Morandi è il nostro Springsteen – tra una canzone e l’altra Gianni raccontava la sua vita. Il mio episodio preferito era quello in cui smetteva d’essere aspirante qualcosa, e faceva quello che in quegli anni era il gran salto: andava al Cantagiro. Ma la mamma lo avvisava che non avrebbe tifato per lui: mica poteva tradire Claudio Villa.
Per noialtre vegliarde – per noi persino più vegliarde di quanto lo fosse la mamma di Morandi quando il figlio cominciò una delle carriere più lunghe della storia del pop italiano – questo Sanremo è un problema, mica un’opportunità: quale dei Claudio Villa tradire?
Tifare Massimo Ranieri – non conosco nessuna che non si strappi le mutande per Se bruciasse la città – o tifare Gianni Morandi, che è pur sempre quello di Uno su mille, la nostra Born to Run? Vuoi più bene al papà o alla mamma? E se fossi Sophie, che figlio sceglieresti di salvare?
Poi ci sono domande minori sebbene maggiori, tipo: Jovanotti farà per Morandi quel che Vasco fece per Patty Pravo al Sanremo 1997, cioè sorprenderci scrivendo la più bella canzone della carriera di qualcuno che ha avuto una carriera di così tante belle canzoni che sembra davvero impossibile si superi in vecchiaia?
Per Morandi non sarebbe neppure una novità. Morandi sembra la New York di cui parlava Francis Scott Fitzgerald quando diceva d’essersi sbagliato a pensare che nelle vite degli americani non esistesse il secondo atto: nella vita di Gianni Morandi ci sono più secondi atti che foto su Facebook.
Chi ha la mia età l’ha conosciuto con un secondo atto. Il repertorio che piaceva ai nostri genitori – robetta come In ginocchio da te, o Fatti mandare dalla mamma, o Scende la pioggia – lo scoprimmo quando Morandi era il caso della settimana, in classifica con il disco fatto assieme a Lucio Dalla, quello che conteneva un sommo capolavoro come Vita (e anche Chiedi chi erano i Beatles, uno dei miei pezzi preferiti nella storia del pop italiano, scritto da Gaetano Curreri, che nel decennio successivo sarebbe stato coautore con Vasco della Patty Pravo suprema nel Sanremo condotto da Mike e da Chiambretti e dalla Marini: poveri voi che siete nati troppo tardi).
Poiché la vita è sceneggiatrice, in quell’estate dell’88, oltre a Dalla/Morandi, uscì Jovanotti for President, e a fine anno era l’undicesimo disco più venduto in Italia, mentre Dalla/Morandi era il quarto; ma ogni tanto qualcuno instagramma la foto d’una pagina di giornale nella settimana in cui Jovanotti stava sopra a Dalla/Morandi, e ogni volta io m’immagino Lorenzo che chiama Gianni per fargli le sue scuse retroattive.
Poiché la vita è sceneggiatrice, l’88 è anche l’anno del ritorno di Ranieri: quello in cui vince Sanremo con Perdere l’amore, una canzone che ha una modalità gucciniana di selezione degli ascoltatori; gli immaturi pensano parli della fine d’una relazione, noialtri adulti sappiamo che è una canzone sull’unico tema interessante: diventare vecchi (so che non potete stare senza sapere che la mia canzone jovanottiana preferita, visto che ormai nel derby tra Morandi e Ranieri ho intromesso Cherubini, è Quando sarò vecchio, della quale mi piace ricordare il verso «molti che conosco saran morti, sepolti sotto metri di irriconoscenza»).
E sì, lo so che tra i partecipanti annunciati a questo Sanremo, oltre a una sleppa di nomi che non so chi siano, e altrettanti che so esistano ma dei quali non ho mai sentito una canzone, c’è anche Mahmood, autore di Soldi, la più bella canzone italiana degli ultimi non so quanti anni, ma Mahmood è un vivente: noialtre vegliarde tifiamo i coetanei, mica i viventi. O, per dirla con la mia canzone jovanottiana preferita: «Quando sarò vecchio, sarò vecchio: di quelli che nessuno vuole avere intorno, perché ha visto tutto e ha fatto tutto, e non sopporta quelli che ora è il loro turno».
Se guardiamo a Sanremo come un prodotto per l’epoca dei cuoricini e non per noialtre vegliarde, Morandi ha più chance di Ranieri. Gianni è una presenza social, «foto di Anna» è lessico famigliare anche per chi i social li odia, fa i video con Rovazzi, palleggia col postmoderno come neanche Orietta Berti. Ranieri non è che conduca vita ritirata, eh; va ad Amici, e a Sanremo duetta con Tiziano Ferro, ma perlopiù fa teatro, o varietà di quelli in cui si esibisce gente capace e non dilettanti con la cui incapacità empatizzare: non è figlio di questo secolo (non lo è neanche Gianni, ma finge meglio).
Insomma, Sanremo 2022 sarà come il Canzonissima del 1972. Per chi l’ha visto e per chi non c’era: concorrevano entrambi, vinse Ranieri, Morandi arrivò secondo. Terza in classifica, Iva Zanicchi, anche lei in gara al Sanremo di quest’anno. Che è quindi ufficialmente una replica. Amadeus fa Pippo Baudo, e Fiorello può fare Loretta Goggi, che la Canzonissima 72 la conducevano. Il problema è che l’ospite speciale di quell’edizione era Vittorio Gassman, e non so a chi intendano farlo sostituire, ma ecco, attore italiano cinquantenne che ha un simile inarrivabile termine di paragone: ti vedo e ti piango.