Sul Riformista di giovedì è stata pubblicata un’intervista a Enrico Morando nella quale sostiene cose per lo più condivisibili. L’intervista però secondo me è viziata da un equivoco di fondo che sta proprio nella prima risposta.
Morando fa discendere tutto il suo ragionamento da questa premessa: «Se io fossi convinto che la cultura liberaldemocratica e liberalsocialista non fosse una componente fondamentale della cultura politica del Pd, non farei parte di questo partito».
Io sono uscito dal Partito democratico più di tre anni fa (molto prima di Matteo Renzi e Carlo Calenda, quindi) proprio perché ho smesso di credere che quelle culture possano essere qualcosa di più di una foglia di fico per un Partito democratico che non ha più nulla a che spartire con il progetto del Lingotto.
Perché Morando non prova a chiedere ai suoi colleghi di partito cosa condividono del discorso di Walter Veltroni al Lingotto? Cosa sono disposti a fare per portare avanti quelle proposte politiche? Sia sul piano delle policies che della politica non avrebbe alcuna risposta convincente.
Quindi da tre anni e mezzo il tema per me è: cosa deve succedere perché anche Morando, e chi si riconosce con onestà intellettuale nel Partito democratico di Veltroni, prendano atto che quel partito è morto e sepolto?
A proposito, mi scuseranno gli amici del Partito democratico se oso nominare l’innominabile: il Partito democratico di Veltroni e di Renzi. Infatti il partito di Renzi era la concreta realizzazione del partito disegnato al Lingotto e il suo programma di governo la concreta realizzazione di buona parte di quella piattaforma, ibridata con le proposte emerse nei primi anni di Leopolda. Non a caso Morando e gran parte del gruppo dirigente di Libertà Eguale sono stati i protagonisti di entrambe le stagioni.
Perché l’affermazione abbia valore (stiamo parlando di politica, non di affetti e nostalgia) la frase: «Se io fossi convinto che la cultura liberaldemocratica e liberalsocialista non fosse una componente fondamentale della cultura politica del Pd» dovrebbe essere completata con «e quando non ne sarò più convinto uscirò dal Pd». Extra ecclesia nulla salus, non è una affermazione che chi fa politica può fare propria senza sentirsi ridicolo: soprattutto se per tutta la vita ha combattuto contro l’idea che il partito fosse una chiesa.
Se si vuole possiamo metterla così: se pensassi che il Partito democratico non fosse irrecuperabile sarei ancora un iscritto al Partito democratico, o almeno un elettore. Molti amici riformisti rimasti nel partito la pensano diversamente e do per scontata la loro buona fede, ma mi piacerebbe che accettassero di confrontarsi “ad armi pari” con chi è fuori.
Armi pari per me vuol dire, dare per scontato che anche “noi” siamo in buona fede e accettare che “loro” possano avere torto. La mia domanda per i “riformisti rimasti nel Partito democratico” (quasi una categoria dello spirito, ormai), persone che stimo, alle quali sono legato da sentimenti di profonda gratitudine e ammirazione, anche sul piano politico e loro spero sappiano che lo dico senza retorica, resta una: «Fino a quando?». Fino a quando siete disposti a dare credito a quel partito? Cosa deve accadere perché riconosciate di avere torto?
Armi pari ovviamente significa che anche io debba fare la mia parte e dirvi il mio “cosa deve accadere perché riconosca di avere torto”. Lo riconoscerò quando il Partito democratico abbandonerà l’idea di allearsi con i Cinquestelle: di allearsi alle elezioni, dopo le elezioni con questa Costituzione vale tutto, non sono mica grillino che non lo riconosco.
Su questo Morando risponde così: «Tutto dipende dal rapporto di forza, dentro la ipotetica coalizione, tra i riformisti e gli altri. Vale anche per il rapporto col Movimento 5 stelle». Peccato che la subalternità culturale prescinda dai rapporti di forza: e, come ha fatto notare lo stesso Conte, è il Partito democratico a essere subalterno ai Cinquestelle e non viceversa.
Per non scadere nel politicismo potremmo dirla anche così: cambierò idea sul Partito democratico quando smetterà di difendere l’indifendibile: dal reddito di cittadinanza per come è stato realizzato alla mediazione al ribasso sulla giustizia dopo aver fatto melina per difendere Bonafede fino a quando è stato ministro, passando per le sanatorie e le assunzioni ope legis nella scuola, per fare alcuni esempi.
Mi sembra evidente che al momento i riformisti rimasti nel Partito democratico pensino che qualunque cosa succeda loro continueranno a restarci. È un peccato, perché gli elettori non ragionano così.