Two Men ShowL’impresa di Biden è la salvezza delle istituzioni americane

Il presidente non ha carisma, ma ha sempre lavorato con spirito di collaborazione con tutte le forze politiche. Un’abilità che, in un quadro sempre più polarizzato, può non bastare. Anche perché, come ricorda Massimo Gaggi nel suo ultimo libro (Laterza), il rischio eversivo è concreto

AP Photo/Alex Brandon

Il 2021, primo anno della sua presidenza, è stato dominato dalle scelte spesso coraggiose, altre volte discutibili di Joe Biden. Abbiamo raccontato il suo calcolo audace, ma anche le circostanze politiche economiche e sociali che lo hanno spinto ad abbracciare un programma molto spostato a sinistra, pur guidando un Paese che è sempre stato più liberista che assistenzialista e che teme, anche nel suo elettorato democratico, l’ingerenza dello Stato e una sua eccessiva espansione in campo economico.

Biden si è convinto che sono maturate le condizioni per un almeno parziale mutamento di rotta e ha adottato un programma che ha il sapore di una condanna senza appello di quarant’anni di reaganomics e, anche, come abbiamo visto, di una parziale sconfessione della linea prudente seguita dai suoi predecessori progressisti: Bill Clinton e Barack Obama.

Abbiamo percorso le tappe di una primavera per lui esaltante di boom economico, buoni risultati della campagna vaccinale, pandemia in regressione, successi in Congresso con l’approvazione di sostegni a famiglie, lavoratori e imprese per oltre duemila miliardi di dollari, sollievo di gran parte del mondo – e soprattutto degli alleati – per il ritorno degli Stati Uniti al multilateralismo e a una leadership dialogante ed empatica dopo i quattro anni dominati da un Trump scorbutico, prepotente, egocentrico.

Poi l’estate divenuta improvvisamente tempestosa tra caotico ritiro dall’Afghanistan, nuova fiammata della pandemia alimentata dalla variante Delta e da un tasso di vaccinati attestatosi a livelli troppo bassi, con un parallelo rallentamento della crescita economica e del riassorbimento dei disoccupati, mentre ad impennarsi in modo allarmante è stata, invece, l’inflazione.

E infine l’autunno delle tensioni provocate a Washington dalle battaglie parlamentari che hanno frenato il cammino del suo programma di riforme, soprattutto a causa dei contrasti all’interno della maggioranza democratica. La variante Omicron che comincia a diffondersi negli Stati Uniti all’inizio di dicembre provoca nuovi timori sanitari ed economici, ma questo non impedisce, come abbiamo appena visto, agli Stati a guida repubblicana di ribellarsi agli obblighi vaccinali.

Mentre Biden continua a precipitare nei sondaggi e il Congresso non riesce a tenere testa alle dispute tra le due ali del suo partito, a novembre arriva la grave sconfitta elettorale in Virginia e in altre elezioni locali: è la conferma che il partito progressista è destinato con ogni probabilità a perdere la maggioranza al Congresso alle elezioni di mezzo termine del 2022.

Chi considerava Biden un politico mediocre rocambolescamente arrivato alla presidenza ed era stato piacevolmente sorpreso dai suoi successi primaverili, torna a condannarlo senza appello. Il presidente, che di certo non è un gigante, ha fatto scelte programmatiche coraggiose – forse anche troppo audaci – e ha cercato di difenderle in Congresso.

Sembrava che il suo volare basso e la grande esperienza parlamentare potessero consentirgli di evitare le trappole che, 12 anni fa, avevano bloccato l’azione di governo di Barack Obama. Invece le patologie di un Parlamento che funziona sempre peggio sono riemerse, forse in modo ancor più acuto.

Qui Biden, che ha sempre cercato il dialogo coi suoi ex colleghi di Camera e Senato e che di certo non si è mostrato arrogante, né ha sottostimato i rischi che aveva davanti, non ha colpe particolari se non quella di una carenza di leadership e di carisma. E chi ha visto in lui per mesi un nuovo Franklin Delano Roosevelt sapeva che era entrato nel campo delle forzature giornalistiche che non vanno molto oltre la confezione di un titolo attraente.

Del resto certe debolezze del partito democratico erano emerse già dal voto del 2020, anche se il successo di Biden con le reazioni furiose (e, nell’immediato, autolesioniste) di Trump avevano mascherato il problema. In quelle elezioni, contro ogni previsione, i democratici, anziché rafforzare la loro maggioranza alla Camera, l’avevano vista assottigliarsi ad appena 4-5 seggi. In compenso avevano riconquistato, anche se per un soffio, il controllo del Senato: un evento maturato grazie alla follia di Trump che con i suoi atteggiamenti golpisti aveva spaventato gli indipendenti e anche molti conservatori moderati spingendoli ad assegnare ai democratici tutti e due i senatori della Georgia (Stato in maggioranza repubblicano) nelle elezioni suppletive del 5 gennaio.

Ma, appunto, quello della politica americana non è un one man show. Oltre al presidente c’è un altro personaggio, quello sì un vero monopolizzatore dei palcoscenici, che, pur non dominando le cronache come nella seconda metà dello scorso decennio, è sempre una presenza incombente sulla politica statunitense. Silenziato dalle reti sociali dopo aver incoraggiato sommosse violente e per il suo continuo ripetere ossessivamente, e senza prove, che le elezioni le ha vinte lui e che Biden è un presidente illegittimo, Donald Trump è sempre al centro delle discussioni politiche, anche quando rimane dietro le quinte.

Solo che queste discussioni non riguardano ormai solo la sua candidatura alle presidenziali 2024, il suo livello di controllo (totale e indiscutibile) del partito repubblicano o la probabile vittoria dei conservatori alle elezioni di midterm del novembre 2022: il tema, sempre più spesso discusso apertamente, è quello della tenuta delle istituzioni democratiche americane.

Ripercorrendo i tentativi fatti da Trump di spingere i funzionari repubblicani di alcuni Stati a non certificare i numeri della vittoria di Biden e l’intenso lavoro in corso da mesi sottotraccia per cercare di modificare in varie parti del Paese i meccanismi in base ai quali i voti vengono espressi, contati e certificati, Hillary Clinton, parlando a una conferenza organizzata dalla rivista The Atlantic, è arrivata a dire che «siamo già nel pieno di una crisi costituzionale. Siamo come la rana caduta in una pentola, cotta a fuoco lento: stiamo per bollire e non ce ne rendiamo conto. Continuiamo a discutere di cose importanti, ma non fondamentali come stabilire se la nostra democrazia sopravviverà o andrà in frantumi, sostituita dal governo di una minoranza».

da “La scommessa Biden”, di Massimo Gaggi, Laterza, 2022, pagine 184, euro 18

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