Nei conflitti politici è sempre difficile capire quando si è giunti al punto di non ritorno. La prova di forza fra Russia, Ucraina e comunità euroatlantica non è da meno. A offuscare il giudizio contribuisce, ad esempio, la totale opacità decisionale del Cremlino: difficile dire con certezza quali siano le intenzioni di Mosca, alcuni dubitano perfino che Vladimir Putin abbia lanciato il guanto a Stati Uniti e Unione europea avendo un’idea precisa di ciò che vuole ottenere.
In queste ore si può tuttalpiù parlare delle condizioni che le forze armate russe dovranno soddisfare per sferrare un attacco su larga scala in Ucraina. L’esercito russo ha raddoppiato la propria presenza ai confini fra i due Stati, portando a quota 60 il numero di battaglioni tattici schierati. Le truppe russe sarebbero in grado di entrare in azione a partire da fine mese, una volta terminato il trasferimento delle unità logistiche dai distretti militari orientale e centrale (Siberia).
Ma l’incertezza sulle intenzioni russe è complementare a quella sull’effettiva capacità occidentale di reagire. Nessuno sembra credere che un solo soldato Nato verrà sacrificato affinché Kharkiv rimanga ucraina, e non esiste un consenso rispetto alla possibilità di rifornire Kiev di armi e munizioni in caso di guerra. Ciò che è invece chiaro è che gran parte degli sforzi occidentali si concentreranno sul mantenimento di unità fra alleati, anche di fronte a un’escalation militare.
Sanzioni finanziarie e il ritorno degli Stati Uniti
Liana Fix, Resident Fellow al German Marshall Fund di Washington DC, spiega che «gli Stati Uniti sembrano prendere molto più seriamente la possibilità di un’azione militare rispetto all’Europa», un’impressione che conferma le percezioni di quali Stati europei siano allarmati dall’aggressiva politica russa.
Capitali come Varsavia o Vilnius hanno sempre scommesso sulla capacità americana di rispondere con più forza alle minacce del Cremlino rispetto agli alleati dell’Europa occidentale; ora che gli alleati dovranno considerare possibili risposte a un’invasione, sono proprio gli Stati Uniti ad aver proposto le sanzioni più dolorose per l’economia russa.
Gli statement pubblici di funzionari dell’amministrazione Biden (e del dipartimento di Stato), così come i lavori legislativi al Congresso, sembrano indicare che ad azioni militari da parte di Mosca si risponderà con una completa espulsione della Federazione russa dai mercati finanziari: si parla per ora di un divieto di fare affari con le banche russe, l’esclusione dal sistema Swift per i pagamenti internazionali e altre misure di questo calibro.
Ma quanto è verosimile che queste “sanctions from hell”, come sono state graziosamente ribattezzate, siano effettivamente imposte? La risposta statunitense a una crisi militare in Europa è soggetta a tre condizioni: prima di tutto, le misure dovranno essere abbastanza forti da segnalare volontà e capacità americana di prevedere un costo salatissimo in difesa dei propri alleati.
In secondo luogo, le sanzioni economiche sono un’arma che si “spunta” un po’ di più ogni volta che viene utilizzata, perché il Paese che le subisce adatta il proprio sistema economico di conseguenza: dopo anni di sanzioni, le misure oggi in discussione sarebbero davvero un’ultima ratio in ambito finanziario, ed è evidente che ad ulteriori escalation non si potrà più reagire solo con misure economiche.
Infine, queste misure richiederanno un consenso ferreo fra Stati Uniti e alleati europei, che rischiano di subire anche loro i costi di tale rappresaglia e dovranno cooperare nell’implementare questa opzione forte.
Ansie da abbandono
Piuttosto che elaborare una politica comune, negli ultimi mesi le relazioni transatlantiche sembrano aver avuto come priorità l’intento di segnalare unità fra alleati. In parte si deve alla necessità di contrastare le percezioni russe sull’effettivo ruolo dell’Unione europea e della Nato in Europa: le due organizzazioni sono essenzialmente viste come emanazioni del potere americano, vassalli che in definitiva rispondono alle priorità politica poste da Washington.
Il fallimento dell’accordo di pace Minsk II e la morte prematura del “formato della Normandia” – con cui Russia, Ucraina, Francia e Germania hanno tentato di mediare una fine della guerra in Donbass – è anche legato al desiderio di Mosca di saltare l’intermediario e confrontarsi direttamente con chi, secondo il Cremlino, può fare il buono e il cattivo tempo in Europa.
Questo non è un problema che riguarda solo i russi. L’ansia che possa essere raggiunto un accordo alle spalle degli europei si ravviva ogni volta che avvengono incontri bilaterali fra funzionari statunitensi e russi, provocando malumori nelle capitali nazionali e a Bruxelles. Il cortocircuito comunicativo di Josep Borrell, Alto Rappresentante dell’Unione Europea in politica estera, è esemplare: dopo aver messo in guardia Russia e Stati Uniti, negli ultimi giorni nessuno più di lui si è speso per assicurare che è in corso la massima coordinazione fra Bruxelles e Washington, pur avendo occupato in modo poco efficace quel «posto al tavolo dei negoziati» tanto agognato a fine dicembre.
Nel dubbio, uniti
Gli Stati Uniti hanno fatto (e faranno) di tutto per combattere questa percezione. Liana Fix spiega che «la coordinazione fra Stati Uniti ed Europa è al centro dell’agenda americana, soprattutto sulla questione delle sanzioni. L’idea è cercare di avere lo stesso messaggio da parte di tutti gli attori: la presidenza francese dell’Ue, la presidenza polacca del Osce, Bruxelles e la Nato».
Il fronte comune serve a impedire alla Russia di scavare un solco fra gli alleati. Ma l’amministrazione Biden ha un interesse genuino nel creare un rapporto affiatato con l’Europa unita, che presto o tardi sarà necessario mobilitare anche nello scontro politico con la Cina.
È però impossibile non vedere il costo di questa politica. Ostentando «deferenza nei confronti degli alleati», come ha scritto Chris Miller su Foreign Affairs, Washington ha de facto rinunciato a una risposta credibile contro la Russia.
Nulla sembra oggi indicare che gli alleati europei siano intenzionati a farsi carico di una strategia politica d’ampio respiro. A margine del summit di Brest, Josep Borrell ha annunciato che Bruxelles avrebbe cominciato a lavorare a una posizione comune sulla Russia, indicando che, anche di fronte a una possibile invasione, non esiste un vero consenso europeo al di là delle sanzioni. Ciò è abbastanza in linea con la politica perseguita fino a oggi, che è più servita a dimostrare la capacità europea di agire comunemente piuttosto che l’utilizzo di questo strumento per perseguire una strategia.
A tutto questo si sommano le posizioni dei singoli Stati membri, molti dei quali sono poco propensi a prendere posizioni forti. Uno su tutti, la Germania. Berlino sconta una visione politica che antepone la stabilità a tutti i costi rispetto alla difesa di altre norme internazionali.
Come spiegano persone vicine alla leadership di uno dei partiti di governo, «l’Europa è attualmente circondata da focolai di crisi in ogni direzione. Tenere l’Ue lontana dalle fiamme è la nostra responsabilità politica», indipendentemente dal costo che questo potrà avere nel medio termine.
Proprio in nome dell’unità alleata è quantomeno probabile che se l’ostinazione tedesca su Nord Stream 2 persisterà, gli Stati Uniti faranno poco o nulla per costringere la Germania ad accantonare il progetto.
Alla vigilia di una possibile invasione esiste quindi un’unica certezza: l’occidente reagirà unito. I contenuti di questa reazione, le modalità della rappresaglia e la strategia a lungo termine per gestire il ritorno della guerra fra Stati in Europa rimangono tuttavia occultati da un grande punto interrogativo.
Ovviamente, è del tutto possibile che un conflitto armato sia ciò che serve per convincere gli europei a buttare il cuore oltre l’ostacolo e reagire con decisione alle pressioni russe. Ma la teoria delle relazioni internazionali ci dice che il rischio di conflitto aumenta esponenzialmente in un regime di incertezza: se entrambe le parti mandano segnali confusi sulla loro risolutezza, tanto più alto sarà il rischio che una delle parti si prenda un rischio di troppo.
Allo stesso tempo, non è detto che vi sia certezza del rischio effettivo che si corre con una politica di appeasement. È possibile che nel caso di un’invasione, che stravolgerebbe definitivamente almeno parte dell’ordine instauratosi dal dopoguerra, l’indecisione europea metta a repentaglio più di quanto non si associ ai destini dello Stato ucraino.